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La dipendenza dai videogiochi esiste. Ma noi non ne soffriamo.

Malato di PlayStation, così debole da cadere nella trappola dei videogiochi. Lo avrete sicuramente letto sui giornali online: un ragazzo di 14 anni rischia di essere allontanato dalla sua famiglia a causa della sua dipendenza dal gaming. La notizia ha scatenato commenti di ogni tipo: c’è chi si indigna perché i bambini passano troppe ore davanti agli schermi, e chi non riesce a sopportare la superficialità con la quale vengono trattati i videogiochi, relegati a piacere morboso di chi non riesce a dire di no.  L’argomento fa bella mostra di sé su siti internet, talk show di dubbio gusto e magari anche nelle chiacchiere dalla parrucchiera, ma non bisogna trascurare il fatto che se ne parli anche a livello scientifico. Nonostante i paper a tema non siano ancora così numerosi, è un topic molto sentito in psicologia e neuropsichiatria: stanno via via aumentando le ricerche in merito e la possibilità di definire cosa sia un problema e cosa no.

Giocare parecchie ore e divertirsi è un problema? No.

Nella quinta revisione del DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) è stato inserito il termine Internet Gaming Disorder (IGD), ed è stato il primo tentativo in assoluto di caratterizzare il problema, aggiungendo peraltro che questa dipendenza richiede studi aggiuntivi per essere bene compresa. Fino a quel momento, la dipendenza dal gaming era stata valutata basandosi sui criteri del gioco d’azzardo patologico, o della dipendenza da sostanze d’abuso. O persino un mix dei due elementi. C’è da notare come si parli unicamente di “Internet gaming”, poiché nella maggioranza degli studi ci si è dedicati all’analisi di MOBA o comunque di titoli multiplayer online, che vengono considerati quelli con maggior potenziale di assuefazione, a causa anche delle interazioni con altri giocatori e del legame che si viene a creare. Ciò nonostante, il tutto è probabilmente adattabile senza problemi ad ogni tipo di gioco.

A seguito dell’introduzione dell’IGD, numerosi nuovi metodi di valutazione sono stati accolti dalla comunità scientifica, sfruttando i nove criteri che secondo la American Psychiatric Association sono collegati all’abuso dei videogiochi. In ordine questi sono:

Se almeno 5 di questi criteri (che peraltro ricalcano quelli di qualsiasi dipendenza) sono presenti per 12 mesi continuativi, si parla di presenza di IGD. Sono stati anche creati test rapidi per valutare la propria situazione, che riporto in calce all’articolo in caso siate curiosi, proprio come accade per altre patologie psichiatriche. Per di più, da recenti ricerche sembrerebbe che il cervello di persone con IGD presenti le stesse alterazioni neurobiologiche di chi soffre di altre dipendenze, ovvero modifiche del sistema del reward e dei circuiti della dopamina: semplificando, sono individui che ricevono sempre meno piacere dalle gratificazioni (che siano cibo, sesso, o qualsiasi attività gradevole), e perciò tendono a ricercarne sempre di più e ad averne bisogno psico-fisico.

I videogiochi erano considerati al pari dei giochi d’azzardo. Fortunatamente si è cambiato approccio

Tutto ciò potrebbe ad un’occhiata disattenta sembrare una conferma della pericolosità del videogioco, ma trovo che in realtà sia l’esatto opposto: riuscire a classificare e delimitare con precisione la dipendenza, paragonandola alle altre già riconosciute dalla medicina, separa fortemente i giocatori problematici da quelli che non lo sono. In sostanza, grazie alle scale psicometriche si può creare una divisione tra ciò che è normale e patologico, esattamente come in tutte le altre attività umane. Dubito che qualcuno di voi si ritrovi nella descrizione dell’IGD, che dipinge un individuo con palesi problemi psico-sociali, e non un semplice videogiocatore hardcore! Va inoltre ulteriormente distinto un giocatore competitivo che magari mette in secondo piano altre attività o hobby poiché vive il gaming in maniera diversa da una semplice passione, aggiungendoci i connotati di potenziale lavoro, soprattutto all’estero dove mantenercisi non è un’utopia.

Per di più è apprezzabile come i criteri non includano un numero di ore di gioco massime giornaliere o settimanale: anche questo è fortemente soggettivo. Ci sono periodi in cui passo tantissimo tempo a dedicarmi a videogiochi, e periodi in cui allento un po’, anche a seconda delle uscite in corso. Ciò non mi rende automaticamente dipendente o a rischio. I futuri studi, di cui già è presente qualche timido esempio, si dedicheranno probabilmente a capire se il rischio di sviluppare dipendenza da videogioco esista per ogni giocatore, o sia davvero marcato solo per persone che già presentano patologie o disturbi della personalità: depressione, ansia generalizzata ed ADHD sembrano essere predittori rilevanti, come già accade per altre assuefazioni.

Concludendo, ci tengo a sottolineare come tantissimi studi (spesso dimenticati da chi analizza la questione, probabilmente per portare acqua al loro mulino) evidenzino le potenzialità positive del gaming. Non solo esiste un vasto uso dei videogiochi per riabilitazione fisica, per potenziale trattamento del dolore e per distrazione in corso di terapie o analisi strumentali, nonché un’enorme letteratura sui benefici in pazienti anziani e con demenza, esistono anche lati positivi per il giocatore comune senza patologie. I videogame migliorano le capacità visive, specie l’abilità di esaminare più stimoli in contemporanea, aumentano la motivazione personale, hanno potenzialità educative oltre che di intrattenimento, permettono di esplorare ambienti e provare emozioni senza rischi fisici e promuovono lo sviluppo della memoria. Ci sono paper che hanno collegato la maggiore intelligenza fluida (cioè quella non correlata alla propria esperienza o bagaglio culturale) con alto rank nei MOBA online, similarmente a ciò che era avvenuto nei grandi campioni di scacchi.

Un bambino può imparare molto anche dai videogiochi. Fatevene una ragione.

Insomma: c’è tantissimo di positivo, e dimenticarlo solo per demonizzare un’attività è un atteggiamento antiscientifico, oltre che medievale. Perciò continuiamo a giocare senza problemi, poiché basta sapersi regolare e mantenere un equilibrio, ed in più la dipendenza è una vera e propria patologia, che non va assolutamente confusa con la dedizione al gioco o la passione.

 

Scala per IGD 9 (DSM 5)

Istruzioni: le domande si riferiscono agli ultimi 12 mesi, ed includono gaming su qualsiasi piattaforma, incluso smartphone, online e offline. Ad ogni domanda potete rispondere con un punteggio da 1 a 5, dove 1 significa “mai”, 2 significa “raramente”, 3 significa “a volte”, 4 significa “spesso” e 5 significa “molto spesso”. Il valore con il quale viene identificato un giocatore problematico (ma non per questo dipendente) è 36 su 45 punti. Se volete provare a rispondere, fatelo per pura autovalutazione e divertimento. Di per sé, se non integrato da visite e pareri medici, il test è solo indicativo.

 

Fonti:

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