A cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’avvento del nuovo millennio le console degli utenti di tutto il mondo erano letteralmente invase da titoli di avventura in tre dimensioni. Sopratutto su PlayStation 2 il genere trovò terreno fertile, inanellando una serie sterminata di titoli dal setting molto simile tra loro: un eroe (o eroina), un villaggio di partenza, il quale nella maggior parte dei casi era destinato a subire una sorte non del tutto rosea, e un mondo interamente poligonale invaso dai cattivoni di turni. Il tutto era caratterizzato da uno stile grafico tipico del genere (dai, se chiudete gli occhi sono sicuro ve lo possiate immaginare anche voi) e sprazzi di sessioni dungeon o platformiche sparse qua e la nel corso del gioco. Il primo impatto che offre Pine è sicuramente quello di trovarsi catapultati indietro di vent’anni, pronti a intraprendere una nuova avventura proprio come quelle appena descritte.
Il titolo in questione venne presentato da un gruppo di studenti, i quali oggi compongono una vera e propria software house indipendente, attraverso il portale di crowdfounding più famoso al mondo: Kickstarter. La campagna di finanziamento, lanciata esattamente tre anni fa, ottenne buoni risultati, raggiungendo oltre 120 mila dollari in donazioni. Tra i vari obiettivi raggiunti vi fu anche la versione Nintendo Switch, oggetto peraltro di questa recensione.
Quanta nostalgia degli anni ’90
In Pine il giocatore impersona Hue, un giovane umano nato e cresciuto in un villaggio completamente isolato dal mondo circostante, in quanto collocato sulle vette di un altopiano, e nel quale vige, secondo le regole dettate dagli anziani concittadini, il divieto assoluto di scendere dai pendii onde evitare una terribile sorte. Ben poco a sorpresa, dopo una breve sessione di gioco nella quale assimilare i rudimenti del gameplay offerto dal titolo, la terribile sorte tocca proprio al nostro villaggio natale. Tale evento, necessario evidentemente ai fini narrativi, porta il nostro protagonista a dover esplorare l’Isola di Albamare e le creature che la popolano.
Il concetto stesso dietro l’idea di Pine è quello di dare in mano agli utenti un mondo in grado di mutare col passare del tempo e attraverso le scelte compiute dal giocatore. Il sistema degli NPC è infatti basato su una precisa “gerarchia ecologica” nella cui cima sono poste le tribù di esseri senzienti sparse nei villaggi di tutta l’isola. Hue può dunque decidere di entrare o meno delle grazie di una determinata specie, rompendo il delicato equilibrio che sembra essersi instaurato prima del suo arrivo. Gli sviluppatori promettevano un intricato sistema di relazioni sociali, nonché un’intelligenza artificiale in grado di offrire soddisfazione nel compiere determinate azioni e, addirittura, mutare in base al nostro stile di gioco. Dopo queste fantastiche premesse, è bene dirlo subito, tutto ciò non è assolutamente presente nel titolo da noi giocato.
Innanzitutto per progredire nel gioco e giungere al suo finale è necessario portare a termine tutta una serie di quest, assolutamente ripetitive, per ogni tribù presente in gioco. Questo significa che qualsiasi sforzo impiegato nei progressi sociali, dovuto alla simpatia o all’antipatia provata dal giocatore nei confronti di una determinata razza, risulta assolutamente futile: alla fine della favola si dovranno mantenere rapporti con tutti. Non è necessario spiegare per quale motivo fare “amicizia” con un popolo, spietatamente attaccato nel corso della missione precedente, spezza la magia e la finzione che Pine regala nel corso delle prime sessioni di gioco.
Le tribù sono inoltre sparse in insediamenti tutti uguali tra loro nella conformazione. Ogni singolo villaggio è infatti munito di almeno un altare per le donazioni, un mercante, una bacheca nella quale viene indicata la situazione geopolitica del momento (eh che parolone: ci sono i simbolini delle razze muniti di indicatore per capire se sono simpatici o meno agli indigeni del luogo), un totem che indica il livello dell’insediamento e, ovviamente, il capovillaggio.
Il design delle razze è si ben riuscito, ma per ogni etnia vi sono appena una manciata di modelli utilizzati per gli NPC. I rapporti inoltre si basano meramente sulla donazione di risorse o l’esecuzione di missioni. Non vi è infatti alcun vero sistema di socialità: vi stanno simpatici i coccodrilli? Donate cibo fino a quando la barra dell’amicizia non indica il via libera per scorrazzare nei loro territori senza paura di venire assaltati. Non aspettatevi dunque chissà quale dialogo o requisito necessario per entrare nelle grazie di qualsivoglia tribù. La socialità in Pine è molto più semplicistica di quanto lasciato intendere dai creatori del gioco.
Fortunatamente Albamare offre anche location differenti, come caverne e cripte (riguardo le quali non entro però troppo nel dettaglio per evitare spoiler) le quali fungono essenzialmente da dungeon al cui interno risolvere enigmi mai troppo impegnativi e chiaramente derivativi dal retaggio di quei giochi tipici di un’altra epoca accennati in apertura.
Il peggio deve ancora venire
Incredibilmente non siamo neanche lontanamente giunti alle criticità più gravi della produzione. Partiamo da un punto che potete facilmente constatare voi stessi da alcune immagini presenti in questa recensione: la versione Switch di Pine è brutta. Ma non fraintendetemi, non è brutta perché la risoluzione è bassa, per via di un frame rate ballerino o a causa di texture slavate e poco definite; no, è peggio. Il campo visivo è limitatissimo: a pochi metri di distanza dal nostro personaggio si comincia a intravedere una fitta coltre di nebbia. Questa nebbia è in grado di nascondere lo scenario, ma non gli oggetti con i quali è possibile interagire. Questo comporta che, ad esempio, se è presente una caverna 200 metri davanti a noi, il giocatore vede letteralmente una macchia nera in mezzo ad un paesaggio completamente bianco. I caricamenti sono inoltre talmente lunghi da richiedere fino a cinque minuti per poter avviare una partita. Questa lentezza nel caricare OGNI COSA si riflette anche nei menù di gioco, afflitti da input lag e pop-up (si, questo gioco ha fenomeni di pop-up nel menù) e nei dialoghi con gli NPC. Capita spesso infatti di posizionarsi davanti ad un personaggio, premere “A” per iniziare la conversazione e potersi muovere tranquillamente nell’attesa che il gioco si decida a far partire quella benedetta riga di testa. Insomma, qualcosa è andato terribilmente storto in fase di ottimizzazione della suddetta versione Switch. Non me ne vogliano gli sviluppatori, i quali hanno sicuramente dovuto combattere contro l’inesperienza ed il budget ridotto, ma si tratta comunque di un titolo venduto a più di 20 Euro e come tale va valutato.
Altro tasto dolente della produzione è il sistema di combattimento, scivoloso e poco preciso. Qualsiasi sia l’equipaggiamento messo a disposizione di Hue, nel momento in cui il giocatore viene chiamato in causa sfoderando una spada o un arco il tutto risulta frustrante al limite del ridicolo. Non si tratta di un combat systems stratificato, sono infatti presenti giusto un paio di combo attuabili. Il problema sta nella precisione con cui i colpi vengono inferti e dalla relativa gestione della telecamera. Se per puro caso si riuscisse a concatenare una parata e un paio di fendenti, la telecamera non sarebbe comunque in grado di seguire il movimento del giocatore, obbligandolo a intervenire manualmente nel bel mezzo dell’azione. Risulta dunque molto più comodo evitare ogni scontro non necessario e, laddove possibile, utilizzare le trappole creabili attraverso il sistema di crafting, una delle poche cose vagamente riuscite.
Nell’Isola di Albamare è possibile raccogliere risorse da riutilizzare in un classico sistema di creazione degli oggetti basato sugli schemi. Ogni oggetto craftabile ha infatti la sua relativa ricetta. In Pine quasi tutto risulta ottenibile attraverso tale sistema, il quale non offre nulla di nuovo rispetto a quanto viste in altre produzioni, ma quantomeno dispone di un buon numero di variabili nell’equipaggiamento col quale munire Hue. Di fatto il nostro alter ego può utilizzare un sufficiente numero di armature e armi, le quale si contraddistinguono da statistiche e abilità differenti: nulla di sconvolgente, sia chiaro, ma in grado di regalare qualche piccola soddisfazione. Gli schemi di equipaggiamento più rari si trovano infatti all’interno di apposite casse sparse per la mappa e apribili solamente attraverso uno speciale tipo di chiave anche’essa craftabile, dando al giocatore un buon pretesto per esplorare ogni anfratto dall’isola. Il mondo di gioco si presenta infatti come un open world, ma risulta quasi sempre spoglio e animato solamente dalla presenza di creature più o meno ostili. Vi sono chiaramente punti di interesse oltre a villaggi e cripte, ma la quasi totalità della superficie esplorabile è fondamentalmente un paesaggio vuoto immerso nella sopracitata nebbia che contraddistingue la versione in questione titolo. Altro che bollino qualità Nintendo.
Pine è sinonimo di promesse infrante
Pine è l’ennesimo esempio di un titolo dalle buone premesse ma mal sviluppate. Probabilmente il volersi incaponire nella formula open world ha sfavorito ulteriormente un team di sviluppatori ancora troppo acerbi per poter pensare di lanciarsi in un progetto così ambizioso, il quale ha la pretese di voler assomigliare nelle fondamenta a quel The Legend of Zelda: Breath of the Wild che ha saputo alzare l’asticella del genere proprio in quel 2017, anno di presentazione del titolo. Il gioco ha una serie di problemi tecnici e di game design (ovvero di premesse assolutamente disattese) sui quali è davvero difficile soprassedere, soprattutto alla luce del costo a cui viene venduto.
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