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Curon – Recensione

Curon

Curon è una serie italiana scritta ad otto (!) mani da Ezio Abbate, Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano, prodotta e distribuita da Netflix.

Curon si apre con un flashback: una ragazza assiste sconvolta all’uccisione della madre, colpita a morte con un fucile da caccia. Lo shock ancora più grande arriva quando l’omicida si volta per sparare anche a lei e questa si accorge che sono identiche. Ma prima che dal fucile parta un altro proiettile, l’assassina viene placcata dal padre della ragazza, che sconvolta cade a terra svenuta.
Sono passati 17 anni e Anna (Valeria Bilello), la ragazza del flashback, sta fuggendo da Milano per non farsi rintracciare dal suo ex marito. Con lei ci sono i due figli gemelli Daria (Margherita Morchio) e Mauro (Federico Russo): Daria è piuttosto irritata all’idea di lasciarsi dietro la sua vita per indulgere la madre, Mauro invece è più propositivo e forse un po’ cocco di mamma, quindi non protesta più di tanto. La famiglia è diretta a Curon Venosta, paese molto suggestivo in Trentino, che ha la peculiarità di essere interamente sommerso. Il vecchio paese infatti giace sul fondo del lago di Resia e l’ultima traccia della sua esistenza è il campanile, spogliato delle sue campane, che spicca come un faro nell’oceano. Il paese è stato ricostruito a monte del bacino ed è lì che la famiglia di Anna gestiva un prestigioso albergo, ormai in disuso. Il piano di Anna è di stabilirsi permanentemente lì, ma suo padre Thomas (Luca Lionello) mette subito in chiaro che quella non è un’opzione, e che i tre dovranno andarsene la mattina seguente.
Ovviamente nessuno gli dà retta e di conseguenza iniziano ad accadere una serie di cose molto brutte, non solo a madre e figli, ma anche al resto del paese.
Da qui in poi la serie segue parallelamente gli aspetti mondani della vita in montagna e i misteri che si annidano nell’albergo, che sembrano legati in qualche modo al lago, o forse al vecchio paese che ci è finito sotto.

La messa in scena è molto convincente, sicuramente aver girato la serie nella vera Curon Venosta ha giovato: vengono mostrati pochi interni ben caratterizzati e tanta montagna ed entrambi alimentano una certa atmosfera di isolamento e mistero. Non c’è molto da dire sulla luce nelle sequenze all’esterno, a parte che una serie italiana a basso budget è riuscita a gestire le riprese al buio meglio dell’ultima stagione di Game of Thrones, ma anche gli interni danno l’impressione di essere illuminati molto naturalmente, il che aiuta a far montare la tensione quando le lampadine cominciano a saltare. I flashback sono caratterizzati dal classico filtro un po’ tra il sovraesposto e il seppia, ma funziona e non dà troppo fastidio.

La recitazione è di buon livello, raramente si assiste a gente che va sopra le righe o gigioneggia, e se i grandi offrono ottime performance anche i giovani si difendono, specialmente i due protagonisti, ma nessuno si distingue per demeriti. Luca Lionello in particolare ruba la scena ogni volta che appare sullo schermo. Fortunatamente gli attori sono aiutati da una regia funzionale, con alcune inquadrature interessanti e ispirate, e anche da una sceneggiatura piuttosto solida. La costruzione dei dialoghi è per lo più molto naturale, spesso è facile anche immaginarsi come risponderà uno dei personaggi a una certa frase o situazione. L’uso di interiezioni scurrili può aiutare molto in questo senso, ma a tratti si ha l’impressione che vengano usate “un tanto al chilo” per raggiungere una certa quota di “cazzi” all’ora. La chimica tra i due fratelli è palpabile e le interazioni con gli altri ragazzi di Curon non sfociano quasi mai nell’eccessivo o imbarazzante. Anche il rapporto tra madre e figli è sfaccettato e non banale.

La storia in sé non è niente che non abbiamo già visto, ma viene raccontata in modo coerente e graduale: non ci sono stonature e non deve essere stato un risultato facile da ottenere per un testo scritto da quattro persone diverse. È strano constatare quanto nel 2020 Twin Peaks sia ancora un’influenza così centrale per molte opere e Curon non fa eccezione: la ricerca di quell’emotività quasi mondana, unita ad un mistero che sembra inconcepibile e inafferrabile viene portata avanti competentemente e offre anche qualche spunto di riflessione, non necessariamente rivoluzionario ma interessante, sull’identità e cosa significhi essere “socializzati”.

Curon è un progetto piuttosto ambizioso per la televisione italiana ed è un altro passo verso la qualità che troppo spesso è mancata alle produzioni nostrane. Purtroppo va a scontrarsi con altri titani del genere su Netflix: Dark e Stranger Things tanto per dirne due. Il primo oggettivamente più riuscito sotto ogni punto di vista, e il secondo molto più pop ma decisamente più accessibile e con budget ben più elevato. Il finale di stagione lascia presumere che ci siano piani per un seguito, ma anche il finale aperto del settimo e ultimo episodio è inquietante e soddisfacente al punto giusto. In sostanza una serie ben fatta, che non dà l’impressione di essere una produzione amatoriale, né un compitino da portare a casa e spero non sia l’ultimo progetto di questo tipo realizzato nel nostro Paese.

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