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Ghost of Tsushima – Recensione

Che cosa significa essere un samurai? A quali metodi si è disposti a ricorrere per salvare la propria gente? Il fine giustifica sempre i mezzi? E se essere disonorevoli diventa una necessità? Questi sono dei quesiti a cui non è mai facile rispondere, ma che rappresentano il fulcro del viaggio di Jin Sakai – protagonista di Ghost of Tsushima, l’ultima fatica di Sucker Punch – ultimo samurai sopravvissuto all’attacco mongolo sull’isola di Tsushima, che in una missione disperata per liberare la propria terra deve mettere in discussione sia il suo credo che se stesso.

Le esclusive PlayStation 4 sono spesso accompagnate al lancio da sentimenti molto divisivi nella community (vedasi il recente caso di The Last of Us Parte 2), e Ghost of Tsushima non è certo da meno. Fin dai primi reveal di gameplay infatti, il gioco ha fatto storcere il naso ad una gran fetta dei giocatori, con sequenze di combattimento che sembravano estremamente scriptate, e uno stile di gioco che ricordava fin troppo da vicino la saga di Assassin’s Creed. Pad alla mano tuttavia molti si sono dovuti ricredere, poiché certo Ghost of Tsushima rispetta e incarna tutti i cliché più classici dell’open world “alla Ubisoft”, ma va anche oltre, offrendo ai sensi del giocatore un mondo vivo e mozzafiato, colmo di poesia e cura nei dettagli, che sebbene spesso soffra in parte la ripetitività del genere oramai abusato, splende anche di una chiara e distinta personalità propria.

L’intreccio narrativo di Ghost of Tsushima 

Le vicende narrate in Ghost of Tsushima, nonostante si prendano talvolta qualche licenza narrativa per rendere il tutto più ludico, sono raccontate con estremo occhio di riguardo alla realtà storica di quanto accadde in Giappone alla fine del tredicesimo secolo. L’invasione mongola del territorio nipponico partì infatti proprio dall’isola di Tsushima, che sperimentò per prima la ferocia e la barbarie dell’esercito nemico, che a differenza di quello giapponese, era dotato di una nuova e temibile arma: la polvere da sparo.

Come nella maggior parte degli open world anche in Ghost of Tsushima il gioco si apre con una sequenza più cinematografica e scriptata prima di gettare il nostro personaggio nel mondo aperto. In questo caso si tratta della tragica battaglia di Komoda, nella quale un manipolo di samurai tentò invano di opporsi allo sbarco dei mongoli sull’isola, prima di venire tutti (o quasi) brutalmente massacrati. A sopravvivere è infatti il giovane Jin Sakai, non per un miracolo o per intervento divino, ma semplicemente perché fortunato abbastanza da ricevere cure da una buona samaritana prima che fosse troppo tardi.

La situazione disperata che il nostro protagonista ha davanti al suo risveglio sembra senza via d’uscita: i mongoli stanno lentamente occupando tutta Tsushima, i samurai sono caduti in battaglia e l’unica speranza che l’isola e i suoi abitanti hanno per scacciare gli invasori risiede proprio in Jin, l’ultimo uomo in grado di opporsi all’invasore. Quest’ultimo sarà dunque costretto – col procedere degli eventi – a scendere a compromessi col codice d’onore dei valorosi samurai, fino a diventare un guerriero feroce e spietato denominato “lo Spettro”, capace di combattere i nemici con metodi poco consoni a quelli dei nobili spadaccini giapponesi.

Samurai e Spettro

Quando si parla di gameplay e combattimenti corpo a corpo in un open world, i due esempi più lampanti che vengono alla mente sono quelli dei titoli di Batman targati Rocksteady, e i sopracitati Assassin’s Creed di casa Ubisoft. Il feeling che fornisce Ghost of Tsushima pad alla mano è un ibrido fra i due ben congegnato, che da un lato – soprattutto nelle prime fasi del gioco quando non si sono ottenute le varie abilità e stance disponibili nel corso dell’avventura – guarda al sistema più metodico e controllato di Assassin’s Creed, fatto di parate, schivate e attacchi effettuabili con pochi tasti. Man mano che si procede a sbloccare le vere potenzialità di Jin tuttavia ciò cambia, e il nostro samurai, similmente all’uomo pipistrello, danza sul campo di battaglia in maniera rapida e letale, con un arsenale di armi e gadget che rendono il giocatore in grado di approcciare ogni tipo di nemico in maniera efficiente ed efficace.

Fulcro di questo sistema di combattimento sono le sopracitate stance, quattro stili di combattimento intercambiabili al volo durante le battaglie con la pressione di R2 + un altro tasto, che non solo consentono di aumentare i danni inflitti al nemico verso il quale quella stance è superefficace, ma danno accesso a vere e proprie combo, diverse per ogni posizione. Il combattimento con la spada evolve dunque con la progressione del personaggio, fornendo al giocatore una sensazione di appagamento per il completamento di determinate sfide o quest che danno appunto accesso a nuove mosse o strumenti per Jin. In quest’ottica si dimostra come la scelta – in fase di game design – degli sviluppatori di non includere un sistema di lock on per i nemici non sia una semplice superficialità. Se infatti all’inizio ci si sente spaesati senza un tasto che consente di tenere la visuale bloccata su un nemico, procedendo nel gioco ci si rende conto che Sucker Punch ha deliberatamente eliminato questa feature per far sì che una volta ottenute abilità più avanzate, che permettono a Jin di muoversi leggiadro e letale sul campo di battaglia, il flow dell’azione non venga rallentato o interrotto per colpa della visuale fissa su un unico bersaglio.

Oltre al classico approccio frontale, non si può non menzionare la possibilità di affrontare il tutto in maniera stealth, eliminando silenziosamente i nemici senza che questi ultimi si accorgano della nostra presenza. Anche per questa meccanica Ghost of Tsushima non presenta nulla di estremamente innovativo o inedito: le uccisioni silenziose fatte da dietro, i campanelli per attirare ed isolare i nemici, il livello di allerta dei nemici visibile a schermo, e così via. Jin è un agile scalatore, dunque muoversi furtivamente mentre eliminiamo i vari nemici sia in verticale che in orizzontale è una passeggiata e anche se affrontare le varie missioni con questo approccio non sempre è possibile, poiché il gioco certe volte costringe il giocatore ad andare alla carica in campo aperto, farsela in stealth è sicuramente il modo più efficiente per completare le varie quest primarie e secondarie.

Un mondo vivo e vivido

La formula open world di Ghost of Tsushima è forse ciò che più ha fatto storcere il naso a molti utenti che ancora titubano sull’acquisto del gioco. Questo genere è infatti oramai arrivato alla sua saturazione negli ultimi anni, e salvo rari casi (vedasi Breath of the Wild), i titoli di questo tipo si assomigliano un po’ tutti. Venendo da una serie come quella di Infamous, era difficile immaginare che Sucker Punch avrebbe cambiato radicalmente la classica formula del suo mondo aperto e infatti così non è stato. Come anticipato nell’introduzione infatti, Ghost of Tsushima rispetta tutti i canoni classici degli open world ai quali il mercato videoludico ci ha abituato ormai da un decennio a questa parte: accampamenti da liberare alla Far Cry, monti da scalare come le torri di Assassin’s Creed, luoghi di interesse da trovare per aumentare una statistica, incontri casuali di pattuglie nemiche, e via discorrendo. La peculiarità di questo titolo tuttavia è che questi punti spesso non ci vengono indicati da NPC o da quest secondarie da seguire sulla mappa, ma dalla natura stessa dell’isola di Tsushima. Le sorgenti termali che consentono di aumentare la salute di Jin ad esempio, emettono del fumo bianco visibile oltre la cima degli alberi. Dunque se durante una cavalcata il giocatore scorge una colonna di vapore, basta seguirla per trovare questo punto d’interesse. O ancora, la meccanica degli uccelli dorati e delle volpi che, se seguiti, possono condurre Jin verso santuari o altri luoghi celati, angoli nascosti del mondo che altrimenti in una mappa così vasta sarebbe praticamente impossibile scoprire.

Ghost of Tsushima riesce dunque a rendere ludico e vivo l’open world, ricompensando il giocatore che semplicemente sale a cavallo ed esplora la mappa, come un ramingo senza una meta precisa.

Una poesia per gli occhi e le orecchie

A rafforzare questo senso di meraviglia e di scoperta c’è poi l’impressionante comparto tecnico e artistico del titolo, che aiutano ad elevare Ghost of Tsushima sopra la schiera degli open world “fotocopia”. Le ambientazioni e gli scorci offerti dall’isola nipponica lasciano letteralmente senza fiato e il tutto risulta ancora più incredibile se si pensa che stiamo parlando di PlayStation 4, una console che oramai sente pesare i suoi onorati sette anni di servizio sulle spalle.

La direzione artistica del gioco è curata in ogni singolo aspetto e oltre all’immenso lavoro fatto sull’illuminazione, sui riflessi, sulla realizzazione del vento e del meteo, della flora e della fauna, Ghost of Tsushina ha un impressionante motore fisico, a parte solamente per gli effetti del sangue. A seconda infatti della direzione del colpo di katana, le macchie di sangue sulle pareti o per terra rispecchiano il verso dei tagli reali inflitti agli avversari.

Nelle cutscene e soprattutto nei momenti più importanti della trama, il gioco assume una regia quasi cinematografica, prendendo ispirazione a piene mani dalle leggendarie pellicole sui samurai di Akira Kurosawa, tant’è che nelle opzioni si può impostare anche una Modalità Kurosawa che trasforma il gioco in bianco e nero e dà ai filmati un effetto film anni ’60.

Concludendo, con Ghost of Tsushima Sucker Punch ha realizzato una vera e propria lettera d’amore per il Giappone feudale del tredicesimo secolo. Proprio come un fiore di sakura, il combat system sboccia nel corso della progressione di Jin, rendendo splendido ciò che all’inizio si era mostrato semplicemente come un bocciolo chiuso. Profondamente rispettoso della cultura e delle usanze nipponiche, il titolo – sebbene presenti lo scheletro visto e rivisto di un open world in terza persona – mischia sapientemente meccaniche vecchie e nuove, tirando fuori un prodotto che riesce a coinvolgere con un poetico abbraccio il giocatore nel proprio mondo, riuscendo là dove altri hanno fallito.

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