Bridgerton è la nuova serie di Shonda Rhimes, realizzata in esclusiva per Netflix, in arrivo sui nostri schermi il giorno di Natale. Rappresenta il primo dei titoli in collaborazione tra la popolare produttrice e la piattaforma di streaming: fare da apripista è una bella responsabilità per un prodotto del genere, specialmente in un periodo in cui abbiamo tutti poca vita sociale e tanto tempo libero per criticare le serie tv. Va detto che gli autori hanno deciso di giocare sul sicuro, scegliendo di adattare la popolare serie di libri di Julia Quinn che ha venduto milioni di copie. Una sorta di Gossip Girl dell’epoca della Reggenza inglese, farcita di romanticismo, trasgressione ottocentesca, vestiti sfarzosi e attori belli, belli in modo assurdo. Siamo capaci tutti così a realizzare un prodotto godibile, no? Forse. Nel progetto è stato coinvolto anche Chris Van Dusen, forse vi ricorderete di lui per Grey’s Anatomy e Scandal (e sì, spero che leggiate questa frase con la voce di Troy McClure dei Simpson).
La storia è tratta dal primo dei libri della Quinn, Il Duca e io, che ho deciso di acquistare e leggere per giudicare l’adattamento televisivo con cognizione di causa. E perché sono una compratrice compulsiva di romanzi. E anche perché sono rimasta incantata dall’atmosfera della serie, che tende a dare assuefazione: è quel tipo di intrattenimento leggero ma gradevole che consente il binge watching. Il tutto ruota attorno alla prolifica famiglia Bridgerton, composta dal una vedova e dai suoi (ben) otto figli. Sono talmente tanti che per ricordarseli hanno scelto di dare loro nomi in ordine alfabetico, il che in effetti torna comodo anche allo spettatore per distinguerli. Ho realizzato solo dopo due puntate che continuavo a confondere tra loro i due fratelli maggiori.
La protagonista è Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor), la maggiore delle figlie e dunque la prima in età da marito. La stagione sociale dell’epoca è una lotta estrema per accaparrarsi il partito migliore, in grado di sostenere economicamente la moglie e magari persino gradevole come essere umano. È perciò un susseguirsi di balli e feste nelle quali le giovani donne si ricoprono di sete e merletti e si intrattengono, per carità solo conversando, con nobili pretendenti che potrebbero accettare di corteggiarle. Il suo interesse amoroso è il Duca di Hastings, Simon Basset (Regé-Jean Page) che assolutamente, totalmente, in modo definitivo, proprio non vuole sposarsi, ma deve comunque sorbirsi gli eventi mondani dell’epoca. Perché non possa evitarli, dato il suo rango nobiliare che gli consente di vivere come voglia, non è ci è dato saperlo, ma frequentare l’ambiente lo fa avvicinare alla bella Daphne.
È il classico presupposto di storia d’amore da romanzo rosa, che potrebbe anche risultare intrigante per lo spettatore. Il problema è che trovo che la chimica tra i due sia pari a quella tra due sassi: non è sufficiente scrivere scene d’amore tra due attori attraenti per rendere la tensione sessuale su schermo, e tra loro mi è mancata quasi del tutto, come pure il sentimento. Phoebe Dynevor è un’attrice bella e con tratti nobili, ma ho trovato i suoi sospironi amorosi davvero fastidiosi. Mi hanno ricordato Bella Swan di Twilight, che è tutto dire. Regé-Jean Page si difende meglio e riesce quantomeno a colpire lo spettatore con qualche sguardo gelido, che ben si addice al personaggio. Oltretutto nonostante l’attrice sia in realtà ampiamente maggiorenne e comunque all’epoca le ragazze si sposassero presto, l’apparente differenza di età tra i due mi turbava un pochino nelle scene più spinte.
Per fortuna Bridgerton non offre solo l’idilliaca coppietta: rendere la storia corale caratterizzando di più gli altri personaggi è stata un’ottima idea. I fratelli di Daphne, ovvero Anthony (Jonathan Bailey), Benedict (Luke Thompson) e Colin (Luke Newton) vivono una vita ben più interessante. Essere uomini, e ricchi, consente loro molta più libertà e seguirli nelle loro avventure ci consente di osservare l’altra parte del mondo, ben più numerosa, fatta di festini, relazioni clandestine e della quotidianità della popolazione meno abbiente. Anche altre giovani nobili risultano più intriganti, come Eloise Bridgerton (Claudia Jessie) e Penelope Featherington (Nicola Coughlan). In due hanno più cose da dire di tutti gli altri personaggi messi insieme e mi auguro che in un’eventuale seconda stagione venga loro dedicato più spazio.
Il punto forte di Bridgerton è Lady Whistledown, figura misteriosa che pubblica giornali dove spiffera gossip e cattiverie sulle famiglie nobili, rimescolando le carte degli eventi. Nonostante a volte agisca troppo come deus ex machina, ricevendo un potere di influenzare le azioni dei personaggi maggiore di quanto implicherebbe il buon senso, la Gossip Girl dell’800 è arguta e divertente. Tentare di indovinare chi sia è uno dei migliori intrattenimenti della serie. Oltretutto è doppiata da Julie Andrews, che è sempre un piacere per le orecchie.
Il contorno di tutto è una splendida scenografia arricchita da costumi davvero meravigliosi: Bridgerton è una goduria per gli occhi. C’è stato di certo un importante investimento sia di impegno che di budget nel cercare di creare una serie visivamente piacevole e che ricreasse (più o meno) fedelmente gli abiti e le acconciature dell’epoca. Le dimore e i giardini utilizzati per girare le scene sono anch’esse degne di nota. Le musiche, seppur gradevoli non mi sono rimaste impresse più di tanto. Ma un valzer è sempre un valzer, ha una bellezza implicita.
Il tocco di Shonda Rhimes si nota, anche dall’inclusione di numerosi attori neri nel cast. Non riterrei nemmeno necessario parlarne nell’articolo, poiché preferisco giudicare la recitazione piuttosto che dettagli simili, ma sono certa che scatenerà un vespaio in chi non lo riterrà “storicamente accurato”. Ma Bridgerton rimane una favola tratta da un romanzo d’amore, per cui l’accuratezza storica mi interessa poco o nulla. Queste poche righe sono il massimo che accetto di dedicare all’argomento. Fatevene una ragione.
Bridgerton è in definitiva una serie gradevole, con potenziale per stagioni successive che esplorino la vita degli altri personaggi. Sempre che Netflix non decida di andare di mannaia, come ha fatto con prodotti anche migliori. La serie ha dei difetti, tra cui una certa ripetitività di argomenti e dialoghi nelle puntate centrali, ma in generale scorre bene e si fa vedere tutto d’un fiato. Lo trovo un progetto meritevole di essere seguito, anche solo per l’eye candy che offre. Che in questo periodo deprimente non guasta.
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