Chi scrive queste righe è una persona che fino a circa cinque anni fa non aveva mai avuto nulla a che fare con la saga di Kingdom Hearts. Quando si è piccoli è difficile avere controllo sugli acquisti dei videogiochi della propria console, compito che nella mia famiglia è quasi sempre spettato a mio nonno e in rari casi ai miei genitori. Kingdom Hearts è un titolo che stranamente non è mai passato sotto il radar di queste figure educative. Stranamente appunto, perché l’idea alla base del prodotto è tra le più allettanti per i videogiocatori in giovane età: un action con personaggi Disney ambientato in mondi Disney.
Passati gli anni e ottenuta la facoltà di poter selezionare personalmente i miei acquisti, grazie alle due raccolte per PS3 decisi di rimediare a questa mancanza, intrigato dai giudizi positivi che avevo sempre sentito rivolti alla saga. Non avevo idea del fatto che avrei vissuto una delle esperienze videoludiche più emozionanti della mia vita. Se Kingdom Hearts per la maggior parte delle persone ha rappresentato la loro infanzia, per me ha rappresentato la fine dell’adolescenza.
Questa premessa serve per rendere noto a voi che leggete il fatto che ho giocato ad ogni capitolo della saga dopo aver accumulato diverse esperienze nel mondo dei videogiochi. Il mio giudizio su di essa dunque non è condizionato dall’accecante luce della nostalgia, che rende tutto bello e intoccabile. La saga di Kingdom Hearts è indubbiamente un’esperienza unica, per alcuni toccante, che ogni videogiocatore, nessuno escluso, dovrebbe tentare almeno una volta nella vita. Il vero perno della storia non sono i personaggi Disney (con le dovute eccezioni), che fungono solo da catalizzatori attrattivi. Sono i personaggi creati appositamente per questa IP dall’allora Square Soft, oggi Square Enix. L’amicizia del trio abitante nelle Isole del Destino fu solo il preludio dell’intreccio di numerosissime storie. Storie legate tra loro dal ragazzo che col suo cuore ha influenzato il destino di ogni personaggio: Sora. Un ragazzo ingenuo ma dal cuore puro, “disposto a vedere il bene negli altri prima del male”.
Kingdom Hearts non è solo la storia della lotta tra bene e male, tra luce e oscurità. E’ una storia di crescita, di presa di coscienza, dove ognuno capisce chi vuole essere e cosa vuole diventare. Dove Sora gioca un ruolo cruciale nel far sì che ognuno arrivi alla propria risposta, al proprio destino.
Non tutto però è rose e fiori. I difetti ci sono e non si possono nascondere. Primo fra tutti, la frammentazione del franchise su diverse piattaforme, che ha reso davvero difficile riuscire a seguire ogni sviluppo della trama. Problema risolto in tempi recenti con le raccolte prima per PS3 e poi per PS4, ma la macchia resta indelebile.
Il secondo difetto colpisce proprio la trama: la saga inizialmente non doveva essere una saga, e la cosa a posteriori è palese. Nessuno pensava che Kingdom Hearts avrebbe fatto breccia nei cuori delle persone in modo così dirompente: Nomura aveva sicuramente dei programmi fino a Kingdom Hearts 2 (il finale segreto del primo gioco ne è la prova), ma tutto ciò che è venuto dopo è frutto di una creazione in corso d’opera. Questo ha generato incongruenze e imprecisioni, e per salvare il salvabile Nomura ha dovuto ricorrere a diversi escamotage narrativi che sono riusciti a sorreggere più che dignitosamente delle fondamenta sabbiose. E’ importante considerare questo, perché Kingdom Hearts fa un pesante affidamento alla componente narrativa, e non prenderla in considerazione come uno dei punti focali significa non giudicare uno degli elementi artistici fondamentali che il videogioco vuole trasmettere.
Il terzo e ultimo difetto è al tempo stesso un pregio. La saga ha rinnovato costantemente le sue meccaniche di gioco, il che è un bene perché in ogni capitolo non si ha mai la sensazione di giocare alla copia di un gioco precedente. Non sempre però il rinnovamento corrisponde ad un miglioramento. Lo spirito e lo stile action, con qualche spruzzata di RPG, rimane sempre intatto, ma quasi ogni titolo porta con sé qualche piccola pecca che non lo rende un capolavoro, ma “solo” un ottimo o un buon gioco. Unica eccezione è Kingdom Hearts 2, che ancora oggi dopo anni di distanza avrebbe molto da insegnare a certe pecore nere del genere.
Kingdom Hearts 3 dunque aveva principalmente due compiti: dare una degna e coerente conclusione alla saga di Xehanort, una saga lunga più di 15 anni costellata di piccole e grandi imprecisioni, e proporre un gameplay solido, divertente, soddisfacente. Ad un mese di distanza dalla sua uscita, a mente fredda, è il momento di tirare le somme e rispondere alla domanda cruciale: Kingdom Hearts 3 è riuscito a soddisfare e ripagare un’attesa durata anni? E’ riuscito a soddisfare questi due punti fondamentali?
“I miei amici sono la mia forza”. Letteralmente.
Partiamo con ordine dal gameplay e ciò che gli ruota intorno. Ho giocato a Kingdom Hearts 3 a difficoltà esperto, platinando il titolo in circa ottanta ore di gioco. Questo vuol dire che l’ho sviscerato, facendo tutto quello che c’era da fare e avendo la possibilità di analizzare a fondo tutte le sue meccaniche. Ebbene, posso dire serenamente che insieme a Kingdom Hearts 2, Kingdom Hearts 3 offre il gameplay più divertente della saga.
I combattimenti sono appaganti e ogni nemico ha un suo comportamento specifico che richiede di adottare la strategia più adeguata per fronteggiarlo, sfruttando debolezze ed aperture. Questo incoraggia ad un gameplay variegato, anche se troppo spesso ci si ritrova ad abusare appena possibile dei due attacchi situazionali di squadra più forti: le attrazioni Disney e gli attacchi combinati con Paperino e Pippo o con gli alleati del mondo Disney di turno. Le prime si possono attivare praticamente contro ogni ondata di nemici, a patto che venga colpito il nemico giusto nell’orda, e danno il via ad un minigioco d’attacco diverso per ogni attrazione. I secondi appaiono ad intervalli casuali e richiedono la sola pressione di un tasto per scatenare una potenza offensiva disarmante. Ciò porta all’unico problema del gameplay: il gioco, anche a difficoltà massima, ha un livello di sfida piuttosto basso, e se siete giocatori navigati negli action con un minimo di esperienza nella costruzione di una build RPG, vi ritroverete a sciogliere i nemici senza pietà. La mancanza della difficoltà critica si fa sentire, tuttavia essa è presente nei file di gioco, il che lascia sperare in un suo futuro rilascio, magari come DLC.
Quando però non è possibile utilizzare queste due meccaniche, si è inevitabilmente costretti a sfruttare tutti gli strumenti a propria disposizione, che siano il combattimento all’arma bianca, la magia, il fluimoto o il comando di tiro. Questo non è un dettaglio da poco, perché nei titoli precedenti, specialmente in quelli realizzati dall’Osaka Team, era sempre presente una meccanica predominante che schiacciava le altre, indirizzando le strategie verso un’unica strada: in Birth By Sleep alcune magie e i comandi di tiro, in Dream Drop Distance altre magie e il fluimoto. In Kingdom Hearts 3 invece ogni mezzo d’attacco è bilanciato e calibrato in modo da non risultare predominante (la magia Fire forse unica eccezione a riguardo). Certo, potrete ignorare tutte queste strategie e premere ripetutamente sempre e solo il tasto d’attacco, ma senza parare e schivare verrete puniti severamente e sarete costretti sempre a curarvi, specialmente contro i boss delle fasi finali.
La grande novità che eleva il gameplay è la possibilità di equipaggiare fino a tre keyblade contemporaneamente, cambiandoli nel mezzo di una combo per scopi strategici. Ogni keyblade ha una sua trasformazione, che è possibile attivare riempiendo un indicatore con le combo d’attacco andate a segno. Le trasformazioni cambiano il moveset d’attacco, fornendo vantaggi offensivi e difensivi diversi per ogni keyblade. Impossibile non trovarne uno che rispecchi il proprio stile di combattimento, e la possibilità di potenziarli (finalmente) fa sì che nessuno di loro sia obsoleto.
“Quando giungerà l’Oscurità, saremo degni della Luce della leggenda?”
Il gameplay dunque ha centrato il bersaglio, al punto che persino i combattimenti dedicati al farming di oggetti per le elaborazioni non risultano tediosi. Rimane il punto legato alla storia, che porterà inevitabilmente ad osservazioni ricche di spoiler. Proseguite nella lettura a vostra discrezione, siete stati avvisati.
Kingdom Hearts 3 doveva dare risposte concrete a quesiti lasciati in sospeso da anni e fornire una conclusione definitiva alla storia di Xehanort, motore scatenante delle sofferenze di ogni personaggio sin dal primo gioco. Questo terzo capitolo adempie al suo compito: quasi tutto ciò che è legato a Xehanort trova risposta, e le eccezioni si rivelano essere in realtà quesiti collegati a quello che con ogni probabilità sarà il nuovo antagonista dei futuri giochi, cioè Xigbar. O meglio, Luxu. Parleremo più in là di lui, concentriamoci su Xehanort e su ciò che funziona nella storia. Il gioco è ricco di momenti commuoventi ed esaltanti, che non tratterò per evitare di dover scrivere un saggio. E’ bene però farlo presente, poichhé contribuiscono al raggiungimento di ciò che avviene alla fine. Personalmente, non sono un grandissimo fan dei finali in cui tutti si abbracciano e non ci sono veri cattivi. Tuttavia, la redenzione finale di Xehanort è più che coerente col suo personaggio, perché nel corso dei vari capitoli (specialmente in Birth By Sleep) ci sono stati diversi indizi che lasciavano intuire come il suo fosse uno scopo nobile perseguito nel modo sbagliato. Può piacere o meno, ma non ha nulla di campato in aria.
Per quanto riguarda Sora, il suo sacrificio finale rappresenta finalmente un passo avanti nell’evoluzione del suo personaggio, paradossalmente uno dei più piatti sin qui della saga. Per poter dare un lieto fine alle persone che avevano sofferto nel corso degli anni, Sora ha rinunciato al suo di lieto fine, a se stesso, permettendo a tutti di poter realizzare il proprio destino. Vedremo quali saranno le conseguenze di questo gesto nei prossimi capitoli, che apriranno la nuova saga di Luxu. Già, Luxu. Diciamolo chiaramente, il colpo di scena dell’epilogo è uno dei punti più alti raggiunti dall’intera saga, dimostrazione che Nomura con delle idee ponderate e senza improvvisazioni è in grado di costruire storie e personaggi di un livello unico. Sin da Birth By Sleep, Xigbar appare come un personaggio opportunista con un suo piano bene in mente, perché già all’epoca Nomura sapeva quale sarebbe stato il suo vero ruolo. Tutto ciò che è legato alle vicende di Union X e al Maestro dei Maestri appare più solido, più congegnato rispetto alla matassa della storia di Xehanort, perché sono eventi scritti in modo consapevole, in un contesto già pensato, avviato e strutturato. Se ci sono domande che non hanno trovato risposta in Kingdom Hearts 3, è perché saranno il cardine di tutto ciò che verrà d’ora in poi, perché non erano veramente legate a Xehanort, ma a qualcosa che si muoveva nell’ombra alle sue spalle.
Parlando invece di ciò che non va, il gioco è troppo concitato dopo i mondi Disney, rendendo quello che avviene durante essi poco interessante. Una distribuzione di alcuni passaggi di trama importanti anche a metà gioco (come il salvataggio di Aqua) non avrebbe guastato al ritmo. E persino in quelle fasi finali, alcune cose avvengono con troppa rapidità, lasciando poco spazio per apprezzare la risoluzione di storie che attendevano una conclusione da anni. Il ritorno di Roxas e la liberazione di Terra sono momenti di grande impatto che non si ha il tempo di metabolizzare e vivere con calma, perché la frenesia della battaglia finale incalza in modo prepotente. Alcuni personaggi sembrano essere stati vittima di un’involuzione piuttosto che di un’evoluzione, su tutti Kairi ed Axel. Per la prima sarebbe più corretto parlare di mancato sviluppo, ma il secondo viene relegato al ruolo di macchietta comica che ogni tanto rompe (molto bene) la quarta parete, sminuendo quelle che erano le sue abilità in combattimento. Infine, alcuni eventi restano vittime del “trattamento Nomura”, specialmente quello che succede immediatamente dopo Il Mondo Finale e l’utilizzo del potere del Risveglio, con un riavvolgimento degli eventi poco (o per nulla) chiaro.
Non solo luce, non solo oscurità
A conti fatti, mi sento pronto a poter dare una risposta alla domanda posta molte righe fa: Kingdom Hearts 3 ha centrato i due obiettivi cruciali che doveva necessariamente realizzare, non riuscendo però a mettere d’accordo tutti. Il gameplay è più che valido, ma per alcuni giocatori è risultato carente della complessità che sarebbe stata generata da una maggiore difficoltà. Il finale è coerente e permette alla storia di lasciarsi finalmente alle spalle quasi tutte le faccende legate a Xehanort, mettendo già da ora delle basi ottime per la saga futura. Ma si avverte la frettolosità con cui si voleva passare ad altro: frettolosità che ha portato ad alcune ingenuità tipiche di Nomura che conosciamo da anni. Resta un miracolo però quello adoperato dal creator giapponese, che è riuscito non solo a dare coerenza ad una saga che sembrava destinata a non averne più, ma persino a costruire le colonne portanti di quello che ci aspetta in futuro. Un futuro che appare ancora pieno di sorprese, pronto ad arricchirsi di nuove storie che andranno ad incastrarsi nel grande puzzle di emozioni che porta il nome di Kingdom Hearts. Di questo non si può che rendergli merito.
Kingdom Hearts 3 segna un punto di svolta sia a livello narrativo sia a livello di gameplay, spaccando a metà la community di appassionati grazie ai suoi pregi e ai suoi difetti. Ciò che ha accomunato tutti è stata l’emozione di avere il titolo tra le mani, dopo un’attesa che sembrava non dover finire più. Possiamo aver avuto opinioni diverse sulla sua qualità, ma immagino che i brividi nell’ascoltare Dearly Beloved una volta davanti al menù di gioco iniziale siano stati gli stessi per tutti. Perché Kingdom Hearts una volta provato ti resta dentro, nel bene e nel male. Abbiamo pareri contrastanti tra loro, ma “condividiamo tutti lo stesso cielo.
Un solo cielo, un solo destino.”