Quest’anno è iniziato col botto: la minaccia di una nuova guerra in medio oriente, l’Australia in fiamme, e ora è stato posticipato il lancio di Cyberpunk 2077 al 17 settembre; tutte cose che ci preannunciano la fine della civiltà come la conosciamo. Eppure basta ripensare a tutte le cocenti delusioni del 2019 per rendersi conto di quanto il ritardo sia preferibile all’alternativa; a nessuno piace pagare 60 euro per fare il beta tester, ma è esattamente la posizione in cui molti videgiocatori si sono ritrovati per gran parte dell’anno scorso.
In questa ottica la posticipazione di Cyberpunk 2077 sembra già meno fastidiosa, specialmente considerando che CD Projekt si è guadagnata in passato la fiducia incondizionata di una considerevole fetta di pubblico.
Il problema è che non si tratta di un incidente isolato, ma di un trend generale dell’industria videoludica che sembra approcciare le deadline sempre più come uno studente universitario demotivato. E se i giocatori sono disposti a credere alla buona fede di CD Projekt non si può dire lo stesso di Square Enix, che ha appena rimandato il remake di Final Fantasy 7 e Marvel’s Avengers, rispettivamente al 10 aprile e al 4 settembre. O peggio ancora di Bethesda, che oltre a Doom Eternal (in arrivo a marzo) ha rinviato per l’ennesima volta il DLC Wastelanders, l’ultima speranza per Fallout 76 di smettere di essere una barzelletta.
Varrebbe la pena chiedersi come siamo potuti arrivare a questo punto: come sia possibile che un numero sempre più alto di videogiochi tripla A arrivino tardi, o peggio vengano rilasciati in condizioni pietose, o cos’altro debba fare Bethesda prima che la gente smetta di comprare una nuova versione di Skyrim ogni sei mesi. La risposta è che le grandi produzioni si spostano sempre di più verso un sistema che punta a soddisfare gli azionisti nel trimestre fiscale corrente, a discapito di tutte le altre parti coinvolte: il divario tra le aspettative del management e la tutela dei diritti dei lavoratori continua ad aumentare, il crunching è diventato una prassi accettata e anzi parte essenziale dello sviluppo di ogni videogioco di prima fascia, e le indagini di mercato continuano a sovrastare qualsiasi direzione artistica. Il tutto mentre si prendono per i fondelli i consumatori facendosi pagare in anticipo per un prodotto che potrà arrivare con mesi di ritardo, o rifilandogli direttamente una early build che avrà bisogno almeno di un anno di aggiornamenti per essere decente.
A nessun’altra industria dell’intrattenimento sarebbe permesso operare in questo modo, tanto meno di farlo così platealmente. E forse anche qui si sta smuovendo qualcosa: l’ondata di posticipazioni a cui stiamo assistendo è, almeno in parte, damage control dopo un anno caratterizzato da una serie di titoli lanciati in condizioni imbarazzanti che una parte del pubblico non sembra più disposta a tollerare. Tanto che i publisher si trovano costretti a dover fare quello che avrebbe dovuto essere scontato: dare una stima più umana dei tempi necessari a creare un prodotto finito. Quindi ben vengano attese più lunghe se necessario, non solo per garantire la qualità dei giochi, ma soprattutto perché passare 14 ore al giorno a modellare texture per sei mesi non può e non deve essere la normalità. E se almeno CD Projekt rimane una delle poche a non prendersi gioco dei clienti, purtroppo sembra non sia immune alla tentazione di spremere un po’ troppo gli impiegati. Non c’è nessuna urgenza, nessun motivo valido per cui un gioco debba essere sviluppato in tempi irrealistici per incastrarsi in finestre temporali predefinite, se non l’imperativo manageriale di riempire le tasche degli azionisti mungendo i giocatori e tiranneggiando gli impiegati. Stiamo parlando di videogiochi, dovrebbero sottrarre miseria umana dal mondo, non aggiungerla.