Sola al mio matrimonio è l’esordio cinematografico di Marta Bergman, regista nata in Romania e vissuta in Belgio. Si è sempre interessata alle comunità Rom e alla discriminazione che questi subiscono, e ha realizzato diversi documentari sul tema. Questo film segue le orme dei suoi lavori precedenti, ma con l’aggiunta di elementi romanzati che non inficiano il realismo di quanto mostrato, semmai potenziando l’espressività di un’opera incredibilmente attuale.
Le prime immagini ci mostrano subito la protagonista, Pamela (Alina Șerban), una donna rom che vive in un piccolo villaggio in Romania con la sua bambina. Si capisce che Pamela aspira ad una vita diversa, ma, privata di un’istruzione e senza altri mezzi a disposizione, si affida ad un’agenzia matrimoniale specializzata nel far incontrare donne dell’est con uomini europei benestanti. Qui ha il primo scambio con Bruno (Tom Vermeir) un belga di buona famiglia. Nonostante i due non riescano nemmeno a comunicare, Pamela pensa sia l’opzione migliore per lei e la sua famiglia, e decide di andare da lui, abbandonando sua figlia con la nonna nella notte. Qui inizia il vero viaggio di Pamela, che si troverà sola in terra straniera con Bruno come unico punto di contatto col mondo esterno.
La regia riflette la prospettiva della protagonista, tutto il mondo “occidentale” è visto attraverso i suoi occhi, (il che rende più evidenti il razzismo e la misoginia latenti in molte interazioni): Pamela è sempre al centro dello schermo e il focus è sempre su di lei. La sua storia è inframmezzata da scene di vita quotidiana nel suo paese, dove ha lasciato figlia e nonna. Qui i campi si allungano per dare spazio ad una comunità interconnessa, contrapposta all’alienazione provata da Pamela in Belgio. La musica nel film è integrale alla narrazione, quando non direttamente un prodotto della stessa. Le luci negli ambienti chiusi sono soffuse e la resa generale del film è molto distante dal documentario, pur mantenendo sempre una prospettiva realistica.
La sceneggiatura di Sola al mio matrimonio è brillante: i dialoghi sono veri, le interazioni tra i personaggi sono naturali, e la rappresentazione non si abbandona mai allo stereotipo. La disparità tra i protagonisti viene evidenziata anche dalle scelte di regia, alcune scene sono veramente potenti e rafforzano ancora di più il senso di fastidio nell’assistere a una dinamica del genere. Pamela viene descritta come un essere umano, senza mitizzazioni o giudizi, non a caso il suo personaggio è fortemente basato su una realtà familiare sia all’autrice che all’attrice protagonista. Bruno non è da meno: il modo in cui il suo personaggio viene caratterizzato da piccoli dettagli nei suoi gesti è magistrale, si capisce che cova un profondo disagio interiore e anche quale sia la natura dello stesso. Il film non ha però timore di mostrare quanto il suo tentativo di stabilire un contatto umano genuino (per quanto in buona fede) sia destinato a fallire, poiché semplicemente mancano i presupposti per una relazione paritaria. La nonna di Pamela è amorevole ma al tempo stesso personifica anche il giudizio morale della comunità a cui la donna è stata soggetta per tutta la sua vita. La bambina senza nome (è chiamata semplicemente bébé) è un’incognita come il futuro di sua madre, che si imbarca in questo viaggio sperando di ottenere una vita migliore per sé stessa e per sua figlia.
Sola al mio matrimonio non è un film a tema, è il ritratto di una realtà sconosciuta a molti di noi, ma in cui è facile anche riconoscere numerosi aspetti della nostra cultura. Un soggetto del genere in mani diverse avrebbe potuto facilmente diventare una commedia “all’italiana”, in cui una donna dell’est sposa un anziano per avere la cittadinanza, e questa cosa dovrebbe far ridere. O una rom-com in cui quello che sostanzialmente è l’acquisto di una persona su internet dovrebbe far nascere sentimenti profondi e genuini tra i protagonisti. O anche una storia di abusi domestici gratuiti che avrebbe finito per sminuire il vero problema alla base di queste dinamiche. O qualsiasi altra storia completamente scollegata dalla realtà. Fortunatamente non erano questi gli intenti di Marta Bergman, che ha portato su schermo una storia che probabilmente sovvertirà le aspettative di molti, in modo mai banale e sempre rispettoso dell’umanità dei personaggi rappresentati, in cui la “ricompensa” finale non è necessariamente l’amore, ma la crescita personale.