Durante questi giorni di isolamento ho avuto accesso in anteprima a tre episodi di “Tales from the Loop”, la nuova serie di Amazon Prime ispirata dai lavori dell’eclettico artista Simon Stålenhag.
Le illustrazioni di Stålenhag combinano elementi sci-fi con l’estetica tradizionale delle case di campagna svedesi per rappresentare un passato alternativo, una linea temporale in cui la scoperta del “magnetrine effect” negli anni cinquanta ha portato ad un balzo tecnologico impressionante. Con questa premessa vengono ricostruiti gli anni ottanta, con molti dei luoghi comuni che conosciamo tutti, ma condizionati da una tecnologia incredibilmente avanzata: tanto incomprensibile per noi quanto mondana e scontata per i protagonisti. Questa idea è già stata alla base di un popolare gioco di ruolo, e ora ha ispirato la serie di Nathaniel Halpern. L’opera arriverà per intero su Amazon Prime il 3 aprile, ogni episodio è funzionalmente autoconclusivo, e i tre forniti in anteprima (il primo, il quarto e il sesto di otto), affrontano temi universali come l’identità, la solitudine, la morte.
Mark Romanek dirige il “pilota” di Tales from the Loop, e gli spetta il difficile compito di introdurre lo spettatore a questo strano e meraviglioso mondo. La prima scena si apre su Russ Willard (Jonathan Pryce), brillante scienziato e direttore del centro di fisica sperimentale dell’immaginaria città di Mersa nell’Ohio, che ci racconta del “Loop”, l’acceleratore di particelle ospitato nel suo laboratorio, e di come questo influenzi la vita di tutti gli abitanti della cittadina. Da qui in poi il focus si sposta su una bambina (Abby Ryder Fortson) che tornata da scuola scopre che sua madre e la casa dove abitavano sono sparite. Comprensibilmente shockata inizia a cercarla, finendo per incontrare molti dei protagonisti della serie, e alla fine avrà un incontro particolarmente illuminante con un’altra scienziata, Loretta (Rebecca Hall), che le spiegherà cosa sta accadendo. Scopriamo già in questa puntata che il Loop è in grado di scombussolare lo spaziotempo, ma non ci viene detto come o perché. Questa scelta esplicita lo spirito della serie, che non nasce come un sofisticato esercizio socratico di “what if”, ma è più interessata a sviscerare l’umanità dei personaggi che abitano questo mondo.
Il quarto episodio si apre nuovamente su Willard, stavolta a passeggio per la campagna col nipotino Cole (Duncan Joiner); i due si avvicinano ad una strana sfera metallica, e Russ spiega al nipote che se ci urla dentro, l’eco rivelerà quanto ha ancora da vivere. Cole urla “Ciao” e si sente rispondere da sei voci diverse che rappresentano vari momenti della sua vita futura, e Russ gli dice che vivrà a lungo. A questo punto Cole insiste perché anche il nonno gridi nella sfera: Russ è malato terminale, una rivelazione che inizialmente sembra turbare più la sua famiglia che lui. Gradualmente le sue angosce prenderanno forma, e comincerà a tormentarsi per aver passato così tanto tempo lontano dai suoi cari, e per come un giorno alla volta tutta la vita gli sia passata davanti senza nemmeno accorgersene. La musica malinconica, le luci soffuse, le magnifiche inquadrature di Andrew Stanton rendono l’esperienza davvero drammatica e toccante, per Russ e per tutti quelli che lo amano, soprattutto Cole, che si trova giovanissimo a dover dare un senso alla vita e alla morte.
L’ultimo episodio dei tre è incentrato su Gaddis (Ato Essandoh), membro del servizio di sicurezza del Loop, omosessuale non dichiarato e molto solo. Dopo aver riparato un trattore apparso misteriosamente nella sua proprietà inizia a guidarlo e finisce in una zona sconosciuta, sceso per chiedere informazioni si trova davanti a un’altra versione di se stesso. Dopo lo shock iniziale il “clone” lo invita a rimanere lì finché non capiranno cosa sia accaduto e gli presenta il suo compagno, un uomo molto affascinante per cui Gaddis inizia ben presto a provare una profonda attrazione, tanto da considerare di tradire la fiducia del suo alter ego. Il triangolo che emerge è sorprendentemente profondo e intrigante, e pone numerosi interrogativi su cosa ci renda davvero “noi”, oltre ad aprire uno spiraglio sulla profonda angoscia esistenziale del protagonista, che teme di essere condannato a rimanere solo per tutta la vita.
Tales from the Loop si preannuncia come una serie magnifica e curata in ogni suo aspetto: la verosimiglianza dei dialoghi che non scadono mai nello “spiegone”, la potenza espressiva delle inquadrature che raccontano anche più della sceneggiatura, la colonna sonora incredibilmente evocativa e magnifiche scenografie fantascientifiche retrò, i tempi cinematografici che non sentono il bisogno di pungolare continuamente lo spettatore. Ma soprattutto può vantare delle performance eccellenti: su tutte quelle di Jonathan Price, davvero struggente nel suo episodio, e di Ato Essandoh, che riesce a reggere egregiamente 50 minuti in scena parlando principalmente con se stesso. È difficile parlare del world building della serie senza sembrare riduttivi, perché la tecnologia è talmente estrema che viene trattata come se fosse pura magia, gli stessi protagonisti sembrano quasi insensibili alle assurdità con cui hanno a che fare, tanto che venire catapultati in un’altra dimensione diventa un argomento di conversazione come un altro mentre si fa pranzo. Questo perché all’ombra di macchine e formule matematiche incomprensibili i veri protagonisti rimangono gli esseri umani, con le loro insicurezze, la loro sofferenza e le loro speranze.