Ho avuto modo di guardare in anteprima i sette episodi di Hollywood, la nuova miniserie in arrivo su Netflix il 1°maggio. Il progetto mi era parso promettente fin dall’annuncio, merito di Ryan Murphy alla produzione, che è un nome che apprezzo sentire. Ho amato diversi suoi lavori, in primis il sempreverde e sempre-eccessivo Nip/Tuck, inoltre trovo che Netflix sia perfetto per dare una casa alle sue opere. Pose, infatti, è un valido esempio del riuscito matrimonio. Hollywood e Pose condividono molto: è evidente come entrambe le storie raccontino la vita di minoranze, focalizzandosi sull’omosessualità e sulla difficoltà di trovare un posto nel mondo. C’è però una differenza tra le due serie, poiché mentre una cerca di narrare la cruda realtà, l’altra parte dal vero e dal verosimile per arrivare alla favola.
Ci troviamo a Los Angeles nel secondo dopoguerra, in quei magici anni in cui il cinema ha visto nascere stelle leggendarie, che tutt’oggi rimangono icone. Il protagonista è Jack Castello (David Corwnswet), che più che ispirarsi a un personaggio realmente esistito, rappresenta tutti gli aspiranti attori bellocci che si sono riversati a Hollywood nel periodo. Sposato e con due gemelli in arrivo, Jack è il perfetto esempio di personaggio che non vuole rinunciare ai suoi principi, ma poi lo fa in meno di venti minuti di Pilot. Il suo percorso piuttosto erratico verso il grande schermo lo porta a conoscere gli altri personaggi che popolano la serie: per primi Ernie (Dylan McDermott) e Archie Coleman (Jeremy Pope), rispettivamente un ex attore che ha messo su un’attività di gigolò e un aspirante sceneggiatore gay e di colore.
La prima puntata fatica a trovare un ritmo e uno stile appropriato e il risultato è un iniziale gran pasticcio. Non si capisce dove la serie voglia andare a parare, complice Ernie che si presenta parlando delle dimensioni del suo pene e Jack che tenta di risolvere i suoi problemi travestendosi da poliziotto: è un eccesso che scade quasi nel ridicolo. Fortunatamente, man mano Hollywood concretizza la storia, grazie anche all’introduzione di personaggi di maggior spessore. Avis Amberg (Patty LuPone) ne è un valido esempio e con il suo carisma riempie lo schermo. Donna, ebrea e sposata al Presidente di una casa cinematografica, il suo ruolo racconta perfettamente quanto si possa essere al contempo ricchi e importanti ma privi di reale potere di cambiare le cose.
Gli episodi successivi ci presentano una spicciolata di giovani personaggi, tutti motivati a raggiungere il loro sogno e sfondare a Hollywood. Ecco perciò arrivare Camille Washington (Laura Harrier), Claire Wood (Samara Weaving), Rock Hudson (Jake Picking) e Raymond Ainsley (Darren Criss). La meccanica delle loro interazioni sembrerebbe basata sulla competizione, più o meno corretta, per accaparrarsi ruoli di rilievo, ma man mano le relazioni tra loro li portano a diventare amici o amanti e il tutto diventa una sorta di scalata collettiva verso il successo, come bene mostra la sigla di apertura. Avrei preferito più pepe? Probabilmente sì, ma vederli fare squadra e opporsi insieme ai pregiudizi e alle trappole del mondo è comunque una dinamica gradevole. Oltretutto sono tutti davvero di bella presenza e un po’ di eye candy non guasta mai. Purtroppo il problema è che i loro personaggi non mostrano carisma, complice una recitazione non sempre eccellente. Sembrano più che altro travolti dagli eventi. Jake Picking è di una piattezza davvero imbarazzante, quasi offensiva per il vero Rock Hudson: non sarà stato l’attore del secolo, ma ha avuto decisamente più brio, persino quanto interpretava personaggi davvero ebeti. Tra i giovani spicca l’interpretazione di Jeremy Pope, che proviene dal teatro e ciò si vede chiaramente nella sua performance.
Ciò che davvero mi ha fatto affezionare alla serie e mi ha coinvolto emotivamente, è stata l’introduzione dei personaggi che sulla carta risultano secondari. Henry Willson (Jim Parsons) è la versione più perversa – ma forse neanche troppo – del manager delle star famoso per aver avviato la carriera di tanti belli e impossibili di Hollywood. È un uomo complesso, che vive nella paura ma tenta di mantenere il controllo vessando i suoi clienti e approfittando di loro sessualmente: da vittima diventa predatore. Il vero Henry Willson era noto per simili atteggiamenti, comuni in un’epoca e in un luogo in cui la sessualità era un’arma a doppio taglio, da nascondere nell’armadio ma anche da usare come merce di scambio. Fu lui all’epoca ad inscenare il matrimonio tra la sua segretaria e Rock Hudson, che nascose la sua omosessualità pressoché per tutta la vita. Jim Parsons non ha invece bisogno di presentazioni e riesce a essere davvero viscido e inquietante, con uno sguardo raggelante. È purtroppo difficile evitare di pensare a Sheldon Cooper sentendolo recitare e questo è un vero peccato. Altra coppia di assi è quella di Dick Samuels (Joe Mantello) e Ellen Kincaid (Holland Taylor), colleghi che lavorano da anni nella casa cinematografica, le cui interazioni da sole reggono buona parte del copione. Sono personaggi ben scritti, coraggiosi, commoventi e interpretati da attori che sanno bene come comunicare emozioni e hanno parecchia esperienza alle spalle. Quanto io poi adori Patty LuPone e il personaggio che interpreta in questa serie, è fuori discussione. Avrebbero meritato tutti ancora più spazio, ma comunque ne guadagnano proseguendo di episodio in episodio.
Hollywood non fa mistero di basare buona parte della sua trama sull’omofobia e sul razzismo e lo mostra fin dalla propria puntata. Buona parte dei protagonisti (uomini) è omosessuale o bisessuale e costretta a nasconderlo, lavorando in un ambiente in cui ancora oggi si cerca di non far trapelare l’orientamento sessuale, se si punta a diventare star internazionali. Ci sono poi personaggi di colore, che all’epoca erano pressoché insignificanti per il mercato cinematografico: l’unica eccezione era rappresentata dai ruoli di cameriere/balie/matrone o direttamente schiavi nei campi di cotone, come ben raccontato da Hattie McDaniel (Queen Latifah, una gradita sorpresa). La vera Hattie McDaniel vinse un Oscar nel 1940, ma fu duramente attaccata dai suoi colleghi afroamericani che le rimproveravano di continuare a interpretare ruoli stereotipati e non partecipare a movimenti di protesta. La Hattie della serie TV invece si rammarica della situazione e cerca di spronare Camille a cercare di ottenere posizioni di rilievo nel mondo dello spettacolo. Le ingiustizie e le sofferenze sono raccontate da Hollywood in maniera piuttosto realistica, ma è qui che prende piede la favola: i personaggi riescono a liberarsi dalle catene e ottengono risultati e gratificazioni impensabili per l’epoca. È come se quest’opera mostrasse i protagonisti a un bivio tra ciò che è effettivamente successo nella storia del cinema e ciò che sarebbe potuto succedere se qualcuno – di potere – si fosse esposto di più per i diritti delle minoranze. Il risultato è un’opera che forse ha meno mordente, ma che rimane gradevole da seguire e più leggera di Pose, che è forse l’antagonista diretto a cui paragonarla.
La sceneggiatura di Hollywood mi è parsa ben scritta. Ci sono dialoghi un po’ surreali, soprattutto nel primo episodio, ma in generale gli scambi tra i personaggi risultano validi e alcune scene sono di forte impatto visivo e emotivo, come la festa in piscina. Il ritmo della serie è buono e i punti morti sono pressoché assenti e ciò consente di guardarla con piacere anche tutta di fila. Fotografia e musiche sono eccellenti: è un vero piacere perdersi nelle visuali di fine anni ’40, complici anche costumi color pastello e scenografie davvero ben realizzate. Lo stile di recitazione mi ha convinta di meno, soprattutto da parte dei protagonisti giovani, poiché mi è sembrato un tentativo di ispirarsi a quello dell’epoca, ottenendole però unicamente l’enfasi eccessiva, pomposa e poco credibile. Unendo queste considerazioni alla storia narrata, ne esce fuori un prodotto valido e godibile, che consiglio a tutti gli abbonati di Netflix di seguire. Avremmo potuto avere una serie eccellente, forse sfruttando di più gli attori di calibro presenti in Hollywood, magari cupa e realistica, ma non era questo lo scopo dei produttori. Per una volta, volevano farci credere che tutto può andare bene, anche a chi parte svantaggiato.