Non so in quanti se lo ricorderanno, ma nella stesura della mia recensione su Aokana: Four Rhytms Across the Blue, esposi in pochissime parole il mio pregiudizio verso le Visual Novel:

Sarò sincero, provo molto scetticismo e pregiudizio verso il genere delle Visual Novel. Non le odio ovviamente anzi, andando indietro con la memoria potrei elencare titoli come Professor Layton e The World Ends with You che – pur non facendo parte del genere – riescono ad incorporare questo particolare stile narrativo all’interno del loro gameplay.”

Al tempo, vuoi per poca dimestichezza con il genere o per evitare di uscire fin troppo dai canoni di una classica recensione, non approfondì mai questa mia repulsione verso questo genere. Crescendo durante l’infanzia a pane, Tekken, Fifa e Budokai Tenkaichi, sono stato educato a vedere il videogioco come un mezzo che mette in primo piano le azioni effettuate dal giocatore, senza se e senza ma. Che si tratti di una stringa di combo da effettuare o di un gol segnato, nei giochi che ho elencato qualsiasi feedback veniva gestito attraverso un intervento attivo del giocatore.

Con il genere delle Visual Novel, ho sempre visto questo elemento messo in terzo piano se non addirittura annullato, cosa che vidi anche durante la mia partita ad Aokana:

Nonostante apprezzi l’impegno di Sprite nella stesura di questa sceneggiatura, Aokana: Four Rhythms Across the Blue soffre nell’ambito in cui nessuna visual novel dovrebbe soffrire: l’interattività. Durante gli 8 capitoli che compongono una run completa del gioco, le scelte disponibili che cambiano il corso della storia si possono contare su due mani.”

E ovviamente questo sentimento si rifletteva anche con opere come Steins;Gate, Fate/Stay Night e tanti altri giochi con una loro nicchia di appassionati ma che per me non offrivano lo stesso bilanciamento gameplay/storytelling che troverei altrove, per esempio in un gioco della serie di Final Fantasy. A tutto questo, aggiungerei anche un po’ di incoerenza, vista la mia piacevole esperienza con titoli come Life is Strange, Persona e il già citato The World Ends with You che come le Visual Novel mettono in primo piano la trama ed il character design eccentrico dei personaggi. In mia difesa, potrei anche interpellare il comparto grafico della maggior parte delle VN, limitato a dei semplici box di testo e a qualche sprite bidimensionale.

Quindi Game Over? La mia ignoranza e poca volontà di leggere centinaia di linee di dialogo davanti a degli sprite immobili mi hanno condannato ad un bad ending prematuro? Sbagliato! Poco dopo la pubblicazione della mia recensione di Aokana, raccontai la mia esperienza con il titolo ad un mio amico che, di tutta risposta mi disse questo: “Perché non giochi a Danganronpa?”

Ora, da quel momento sono passati più 12 mesi ed in concomitanza non tanto con la release di Danganronpa: Decadence quanto per la sua release su Xbox Game Pass, ho deciso di prendere fiato, incollare il mio bel sederino alla sedia e buttare giù un’analisi personale sulla maggior parte dell’opera concepita da Kazutaka Kodaka e Spike Chunsoft.

Piccola nota a parte: questa “recensione” si focalizzerà sulla maggior parte dei capitoli presenti all’interno della già citata raccolta, andando però a parlare in una formula più breve (in quelli che possiamo considerare dei capitoli extra) dell’anime Danganronpa 3: The End of Hope’s Peak Academy e del gioco spin-off Danganronpa Another Episode: Ultra Despair Girls. Non verranno presi in considerazione l’anime di Trigger Happy Havoc e le light novel Ultra Despair Hagakure e Danganronpa IF e Danganronpa Zero, in quanto non sono ancora riuscito a recuperarli.

Capitolo 1: Primo Contatto

Danganronpa: Trigger Happy Havoc, rilasciato inizialmente su PlayStation Portable nel 2010 è il punto di partenza dell’intera serie che già dai suoi primi minuti è riuscito a confondermi e allo stesso tempo incuriosirmi.

La storia inizia con il protagonista, tale Makoto Naegi, intento ad iniziare il suo primo giorno alla Hope’s Peak Academy, una scuola aperta esclusivamente ai ragazzi che dimostrano di possedere un talento unico (detto anche Ultimate o Super High School Level) e ubicata all’interno di una nazione non chiara. Abbiamo quindi la Ultimate Idol, l’Ultimate Baseball Star, l’Ultimate Biker Gang Leader e chi pù ne ha più ne metta. Insomma, qualsiasi persona in grado di eccellere in una particolare disciplina è il benvenuto (e fidatevi, l’elenco di talenti presenti all’interno della serie non manca di fantasia).

Caso vuole che Naegi, personaggio che incarna perfettamente lo stereotipo del Visual Novel Protagonist monodimensionale, introverso e senza alcun talento specifico, venga ammesso all’interno dell’accademia tramite un sorteggio, diventando quindi l’Ultimate Lucky Student, il fortunello insomma. E se da un lato un ignaro giocatore che non ha mai visto alcun materiale promozionale o immagine di gioco potrebbe cominciare a pensare che sia l’ennesima Visual Novel basata sulla costruzione di un harem, è proprio nel momento in cui Naegi mette piede all’interno della scuola, che le cose cambiano. La visuale si distorce, come se entrassimo all’interno di un altro mondo. Schermo nero.

Una volta risvegliato, Makoto si ritrova all’interno di un contesto inquietante: una classe vuota con le finestre serrate da placche di ferro e chiodi giganti. Girando per l’accademia, il ragazzo entra in contatto con altri 14 studenti davanti alla porta d’ingresso della scuola. Una porta sorvegliata da telecamere di sicurezza e torrette, come se qualcuno li stesse impedendo la fuga . Di preciso, parliamo di un orsetto bianco e nero parlante, chiamato Monokuma. Il bizzarro animale introduce il gruppo ad uno dei suoi marchi di fabbrica, il Killing Game Semester, un gioco mortale dove gli studenti hanno solo due opzioni: uccidere un proprio coetaneo oppure collaborare con gli altri e scoprire l’identità dell’assassino e sopravvivere. Qui inizia l’avventura del giocatore, qui inizia la sofferenza, qui inizia Danganronpa!

Una volta terminato il prologo, ogni capitolo verrà diviso in 4 fasi: la normale progressione della trama principale, intervallate da brevi sezioni di Free Time in cui esplorare l’accademia, ottenere Monocoins per comprare nuovi oggetti al negozio della scuola ed interagire con i propri partners in crime in brevi sezioni di Dating Sim. Queste prime due fasi fanno parte della School Life, il mood più spensierato (ma neanche troppo man mano che la narrazione va avanti) del gioco e al quale si contrappone (come una dicotomia) la Deadly Life, che scombussolerà le carte in tavola subito dopo l’avvistamento di un cadavere. Da qui, il gioco assume sempre di più i tratti e le dinamiche di titoli come il Phoenix Right: Ace Attorney di Capcom. Anche qui, la vita mortale all’interno della Hope’s Peak Academy si divide in due fasi: l’investigazione della scena del crimine, alla ricerca di Truth Bullets da utilizzare nella seconda fase del gioco, i Class Trial,  cuore pulsante dell’intera esperienza.

Un momento. Proiettili? Ebbene sì, il nome Danganronpa ovvero Bullet Refuting (proiettile del rifiuto) trova il suo massimo significato all’interno dei Class Trial, dei processi in cui il giocatore raccimola tutte le prove (i Truth Bullets) acquisite durante l’investigazione, che siano oggetti, dettagli o addirittura le testimonianze degli altri personaggi per acciuffare il colpevole. Questo avviene tramite il superamento di diverse fasi, che di volta in volta trasformano le dinamiche e le meccaniche del gioco, imbarcandolo all’interno di diversi generi. Se nel Non-Stop Debate si ascoltano le discussioni tra i vari personaggi, alla ricerca delle contraddizioni da controbattere, utilizzando le prove a disposizione come veri e propri proiettili per mirare e sparare sulla frase incorretta, e portare sulla retta via la narrazione del crimine; nell’Hangman’s Gambit si interagisce con un mediocre cruciverba alla ricerca delle lettere giuste in grado di completare lo schema.

Una volta arrivati all’atto finale del processo, il Closing Argument, verrà chiesto al giocatore di completare un puzzle a fumetti ben congegnato per ricostruire per filo e per segno le dinamiche dell’omicidio e determinare whodunnit. Ovviamente, il colpevole non se ne starà con le mani in mano e se nelle prime fasi cercherà di depistare il gruppo con argomentazioni farlocche da contraddire, ma una volta definita la sua identità comincerà a negare l’evidenza e a reagire in maniera piuttosto aggressiva. Ed è proprio in quel momento che si apre il Bullet Time Battle, un confronto 1v1 a colpi di rhythm game. Al termine del trial, il giocatore verrà valutato con un punteggio finale, al quale corrisponderà una adeguata ricompensa in valuta di gioco.

Il tutto si racchiude in un gameplay loop soddisfacente, anche se non proprio propenso alla rigiocabilità. Quest’ultima è racchiusa nelle opzioni che vengono offerte al giocatore dopo la fine dei titoli di coda, con un post-game che manda a quel paese il sangue, la morte e tutti gli orrori del Killing Game per permettere al giocatore di esplorare il background di tutti i personaggi, oltre che ad introdurre un minigioco gestionale a tratti noioso, ma fondamentale per i completisti.

Tutto sommato, Trigger Happy Havoc offre quello che si definisce il bread and butter dell’intera esperienza, e riassume brevemente il concetto di interattività che cercavo nelle Visual Novel. Leggere i dialoghi o conoscere a memoria il background delle gambe di Byakuya Togami non vi porterà alla verità, senza un minimo di impegno e ragionamento logico. E posso tranquillamente dirlo, al termine dei titoli di coda sono rimasto pienamente soddisfatto, al netto di alcune scelte nella sceneggiatura e nel gameplay non proprio sviluppate in maniera intelligente. Ma ovviamente, si parla di un esperimento per l’epoca in cui venne sviluppato e rilasciato e certamente un neofita potrà pensare “il sequel migliorerà tutto no?” Eccome se lo fa.

Capitolo 2: Despair Boogaloo

 

Come detto prima, Danganronpa: Trigger Happy Havoc offre uno scheletro, una base da cui partire. Una base non perfetta, a tratti fallace e in altri aspetti geniale, soprattutto per quanto riguarda la sua genesi. Perché chiariamoci, il Battle Royale tra studenti ideato da Koushun Takami e successivamente trasposto in manga e film nel corso dei primi anni 2000 non è di certo un genere narrativo trascurato, anzi. Ma il pregio (a mio parere) dell’opera iniziale di Kazutaka Kodaka è il suo stile. Dai design dei personaggi, alla musica, fino ad arrivare alla trama e alle folli modalità d’uccisione documentate, il primo capitolo di Danganronpa poteva solo migliorare, magari uscendo dai limiti della School Life. Cosa che Goodbye Despair fa.

In questo secondo capitolo, il Killing Game abbandona le mura della Hope’s Peak Academy e si trasferisce nelle Jabberwock Islands, un arcipelago sperduto tra le acque dell’Oceano Pacifico e che il buon Monokuma ha reso il suo parco giochi del massacro. Massacro che Hajime Hinata e la sua classe, anch’essa piena di Ultimate, cercheranno di impedire. Ovviamente, cercando di mantenere al minimo gli spoiler, la narrativa che offre DR2: Goodbye Despair da questo punto in poi segue un canovaccio simile al suo predecessore, e se da un lato si arriva persino a toccare il fondo e a propinare uno dei casi e processi peggiori della serie (chi vuole capire, capisca), dall’altro offre degli spunti interessanti, oltre che ad una profondità riscontrabile su più fronti una sceneggiatura che nella sua interezza è riuscita a convincermi. Ciò che il giocatore nota fin da subito è il lavoro fatto da Spike per esaltare la maggior parte dei personaggi secondari tramite eventi extra sbloccabili tramite l’ottenimento di oggetti speciali o ancor meglio ciò che fanno su schermo, al punto da diventare ancor più interessanti del protagonista.

All’esplorazione in prima persona in Salsa Shin Megami Tensei è stata affiancata una breve e visivamente brutta sezione in 2D dedicata alla selezione delle varie zone che compongono l’arcipelago e un sistema a livelli in stile JRPG, dedicato alla gestione e l’apprendimento delle varie skills utilizzabili durante i vari trial, che in DR2 vedono introdurre due nuove fasi di gioco: il Rebuttal Showdown, dove il giocatore è messo faccia a faccia con un altro membro della classe ancora non del tutto convinto su un particolare dettaglio del caso; e il Logic Dive, un percorso a ostacoli dove si viene chiamati all’approfondimento di una prova attraverso la risoluzione di alcune domande logiche. A queste, si aggiungono le principali fasi di gioco introdotte nel primo capitolo, come l’odioso Hangman’s Gambit, che in questa versione migliorata risulta ancora più frustrante e mal pensata. Grazie al cielo, questo e tanti altri intoppi ricorrenti non peggiorano in maniera significativa l’esperienza di gioco nella sua totalità, che risulta godibile e maledettamente avvincente, soprattutto nelle fasi finali, dove DR2: Goodbye Despair invita il giocatore ad allacciare le cinture per la terra della follia, qualcosa di difficile da raccontare a parole.

Alla narrativa, sono state aggiunge modalità extra come Magical Miracle Girl Usami, un mini-action rpg che va a riempire alcuni buchi narrativi lasciati tra la fine di un capitolo e l’inizio di un altro e dove il giocatore prende il controllo di Monomi, una coniglietta in grado di eliminare mostriciattoli robotici rinchiudendoli in un cerchio magico. Oltre a questa, torna la modalità pacifica sbloccabile una volta terminato il primo playthrough del gioco e che anche questa volta prende una deriva gestionale, riproponendo lo stesso loop di gioco visto nel capitolo precedente.

Anche la presentazione ha subito un power-up a tutto tondo, con una soundtrack che viene arricchita da toni hard rock, un character design decisamente più variegato, e una regia che (tramite l’utilizzo di un palcoscenico 3D durante i vari trial) prova a sperimentare con la telecamera e ad uscire dai limiti della staticità della visual novel. Il risultato è un sequel che supera di gran lunga l’eredità del primo capitolo, ma che mostra ancora il fianco ad alcuni difetti che perseguitano la serie.

Capitolo Extra-1: Qualcuno pensi ai bambini!

Personalmente non considererei Danganronpa Another Episode: Ultra Despair Girls come un capitolo spin-off, bensì come un approfondimento dell’universo narrativo. Il titolo, rilasciato su PS Vita, PS4 e PC, racconta la storia di Komaru Naegi, sorella del protagonista del primo capitolo intrappolata all’interno di Towa City, una megalopoli all’avanguardia e piena di Monokuma assetati di sangue.

Parlare di UDG è sempre una questione spinosa, in quanto si tratta di un gioco che si discosta dai canoni della serie. A cominciare dal suo genere, che si allontana dalla visual novel per abbracciare le meccaniche degli sparatutto in terza persona con piccole sezioni puzzle (non proprio ben congegnate a mio parere) qua e là, incorporando i classici riquadri da VN nelle varie scene che compongono la narrativa.

Purtroppo, oltre alle già citate sezioni puzzle legnose, si aggiunge un gameplay che non viene premuto fino all’osso, risultando stucchevole, con boss fight che al loro massimo potenziale possono essere rotte da un personaggio sufficientemente potente, attraverso skill per un particolare personaggio di supporto (che non rivelerò) e adesivi da aggiungere alla Megaphone Hacking Gun.

È un vero peccato che questi difetti scoraggino gli utenti dal provare Ultra Despair Girls, perché checché se ne dica questo capitolo extra racchiude al suo interno alcuni dei personaggi e twist narrativi più inquietanti di tutta la serie, e che a loro volta hanno (probabilmente) bloccato l’arrivo di questo capitolo su Nintendo Switch. Inoltre, ma questo è semplicemente un appunto personale, UDG racchiude l’anima fanboystica di Kodaka, sempre pronto a citare i suoi prodotti multimediali preferiti. Vi lascio un piccolo esempio qui sotto.

Danganronpa

Capitolo Extra-2: Un climax (quasi) perfetto.

Danganronpa 3: The End of Hope’s Peak Academy è un progetto senz’altro ambizioso. Inizialmente pensato come trasposizione animata del secondo capitolo, questa serie anime è stata rielaborata in un terzo capitolo che riprende la narrazione e la divide in due archi narrativi: Future Arc e Despair Arc. Future Arc è un sequel diretto di Danganronpa 2 e (sempre senza particolari spoiler) mette in scena un nuovo killing game con dinamiche diverse ma con misteri e capovolgimenti ad ogni angolo; Despair Arc invece, funge da prequel di tutta la serie, e racconta le gesta, i personaggi e gli eventi che hanno portato alle origini dell’opera.

Entrambi gli archi narrativi risultano (a livello superficiale) due anime ben distinti, con due storie completamente diverse tra loro. Allo stesso tempo però, ciò che avviene nei loro retroscena viene ripescato più e più volte in tutti e 24 episodi che compongono questa serie animata, e che culminano in un OVA finale che scioglie la maggior parte dei nodi sul pettine e che, a parte qualche scivolone perpetrato in nome del fanservice più spudorato, conclude degnamente la saga della Hope’s Peak Academy.

“Yeah I don’t get this either. Pretty sure I died.”

Capitolo 3: A New Game

 

Scrivere di Danganronpa V3: Killing Harmony non è un compito semplice, per diversi motivi. Da una parte abbiamo la mia impossibilità (causa spoiler) nello snocciolare nei minimi dettagli una narrativa che vi terrà incollati alla sedia per tutte le 60+ ore che compongono quest’ultimo capitolo della serie; dall’altra troviamo invece una community spaccata a metà, tra chi ritiene questo gioco un capolavoro e chi invece pensa che abbia rovinato per sempre il brand. Dal mio canto, io posso solamente affermare che Danganronpa V3 è l’esperienza definitiva del Killing Game di Kodaka e Spike Chunsoft.

Partendo dalla trama, quest’ultima ripropone un setting molto più in linea con il primo capitolo: un gruppo di studenti giapponesi viene rinchiuso all’interno della Ultimate Academy for Gifted Juveniles, un enorme struttura a più zone predisposta per questa nuova partita di Among Us Anime offerta dal sempre verde Monokuma, affiancato questa volta da ben 4 “aiutanti”: i Monokubs, vere stelle delle comic relief di questo gioco (protecc Monodam). A livello di scrittura dei personaggi, siamo di fronte ad un vero e proprio miracolo, e dove la decostruzione della protagonista Kaede Akamatsu la fa da padrone durante ogni capitolo. Il tutto è un condito da un roster di vere e proprie mine vaganti travestite da personaggi secondari, ancor più dei capitoli precedenti laddove magari tra un Nagito Komaeda ed un Byakuya Togami si riusciva ad identificare una persona sana di mente. Qui invece tutti svalvolati e Ma’at in culo, e in un modo o nell’altro è proprio questo ciò che contraddistingue V3, un gioco che stordisce nelle sue premesse ma che allo stesso tempo è la quintessenza del franchise, prime sensazioni vissute già in passato, volta avviato Trigger Happy Havoc.

Ovviamente, manco a dirlo, l’inizio di un nuovo Killing Game comporta il ritorno dei Class Trials, che a questo “giro di boa” per la serie adotta delle scelte in grado di alleviare le varie criticità menzionate nei suoi predecessori. Durante questi scontri tra la verità e la menzogna, il giocatore avrà finalmente la possibilità di passare al lato oscuro effettuando una falsa testimonianza, sfruttando le prove a sua disposizione per mentire e allo stesso tempo rimescolare le carte in tavola, sbloccando nuovi dialoghi che normalmente non sarebbero disponibili. Ovviamente non parliamo di un processo dalla natura randomica e procedurale, ogni capitolo avrà sì e no una manciata di questi scenari alternativi, tuttavia è già un enorme passo avanti e un piccolo invito alla rigiocabilità.

Parlando invece delle varie fasi dei Class Trial, il Logic Dive di Goodbye Despair è stato sostituito dallo Psyche Taxi, un minigioco lineare e senza ostacoli ma dall’estetica accattivante e incredibilmente l’Hangman’s Gambit V3 non è una merda come i suoi predecessori, nonostante sia ancora lento come la melassa; nel caso delle fasi di gioco più classiche, il Debate Scrum presenta un botta e risposta rapido tra due fazioni in disaccordo su una particolare prova presentata durante il processo. La fase finale, detta Argument Armament, riprende infine le dinamiche da rhythm game simili a quelle di giochi come Hatsune Miku Project Diva, e nel quale il giocatore affronta il colpevole in uno scontro all’ultima nota… e all’ultimo panty shot.

Questo e molto altro ha reso Danganronpa V3: Killing Harmony il mio capitolo preferito in assoluto, tra musiche catchy e che traggono il loro groove da una varietà di generi, una sceneggiatura e un design dei misteri che FINALMENTE non soffrono di cali di qualità o di problemi creativi ed un finale che… AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA! Devo starmi zitto!

Ma allo stesso tempo, romperò brevemente il silenzio dettato dagli spoiler per ammettere il mio crimine: ho mentito. Non vi dirò dove, né il perché. Ma all’interno di questo capitolo ho deliberatamente detto delle cappellate incredibili. Ironico però come in queste cappellate risiede il vero significato e cuore pulsante dell’intera esperienza di Danganronpa V3: Killing Harmony e sotto certi versi anche la sua tematica.

Come dite? Ulteriore rigiocabilità? Opzioni post-game? In effetti esistono e la maggior parte di queste sono contenute all’interno del Casinò. Niente di scandalosamente curato, parliamo di re-skin della maggior parte dei minigiochi presenti nei Class Trial, con la possibilità di guadagnare gettoni necessari per riscattare nuovi oggetti e premi. Ma oltre a questo e alla consueta modalità pacifica dedicata ai Free Time Event dei vari personaggi, non ricordo assolutamente nessun altro contenuto aggiunt… Oh. Oh no! È vero, c’è anche… Quello.

Capitolo Extra-3: Una vacanza fin troppo costosa

Non parlerò molto di Danganronpa S: Ultimate Summer Camp prima di arrivare alle conclusioni. Anche perché a dirla tutta non ci sarebbe molto da dire, stiamo parlando di un banale gatcha che prende la struttura di un minigioco già esistente nei contenuti extra di Danganronpa V3, ovvero l’Ultimate Talent Developement Plan, un gioco da tavolo, in cui i vari personaggi (sbloccabili attraverso la spesa di diversi tipi di crediti in-game) dovranno essere potenziati uno alla volta prima di poter affrontare l’orda di mostri attraverso un semplice combat system a turni.

Va da sé però che applicare questo loop di gameplay ad ogni versione di ogni personaggio, divisi nelle classiche rarità (Comune, Raro, Super Raro e Ultra Raro) partendo da un roster di ben 60 personaggi provenienti dai 4 giochi sviluppati da Spike Chunsoft, la magia del “evviva, un nuovo gioco dopo 5 anni” svanisce immediatamente. A questo, si aggiunge un modello di monetizzazione fin troppo aggressivo e che a mio parere non dovrebbe esistere in un gioco che sì, per gli acquirenti della versione fisica di Danganronpa Decadence è un bonus gratuito di una collection pazzesca venduta a 60 euro, ma che per chiunque altro richiede un biglietto d’ingresso di ben 20 euro all’interno del Nintendo eShop. Una vera occasione sprecata.

Capitolo Finale: Farewell, all of Danganronpa

Arrivati a questo punto della “mega recensione” penso si sia capito il mio apprezzamento per questa serie, i suoi personaggi, le musiche, le atmosfere ed i vari processi, uno più pazzo dell’altro (nel bene e nel male), al punto da avermi fatto utilizzare un paio di iperboli nella stesura di questo mucho texto. Ad essere sincero, sono passati diversi mesi dalla scrittura del primo capitolo introduttivo e ad oggi (siamo a Gennaio) ho mancato clamorosamente la finestra di lancio di Danganronpa Decadence su Switch. Inizialmente, questo articolo avrebbe dovuto essere un editoriale molto, fin troppo personale.

Chi mi conosce, sa che nell’ultimo anno (tra pandemia e problemi personali) sono stato colpito da un forte caso di ansia sociale e di depressione. Più passavano i giorni e più i miei stimoli andavano via via a scemare, per non parlare delle mie relazioni personali con amici e parenti. E in tutto questo, cosa ci azzecca Danganronpa?

Nel più semplice degli sviluppi, la proposta menzionata nel capitolo introduttivo di giocare questa serie mi ha permesso di prendermi un paio d’ore libere ogni sera, collegato sul discord dei frà, e distrarmi. Niente di più e niente di meno. Qualche risata, qualche lacrima e qualche battuta sconcia per commentare l’eccessiva sessualizzazione di alcuni personaggi del cast (qualcuno ha detto Mikan?). E se da un lato mi dispiace il non poter approfondire l’argomento videogiochi ed escapismo, magari con un’analisi sui benefici e gli svantaggi di un ipotetico gaming terapeutico, ho preferito lasciare il compito a persone ben più competenti e contribuire alla crescita della community di Danganronpa a modo mio, parlandovi a cuore aperto di ciò che mi ha fatto innamorare di questa serie. In un certo senso è come se avessi appena concluso la mia cerimonia di diploma, ringraziando il rettore pluri omicida dentro un costume da orso e tutti i compagni incontrati durante il percorso.

Di certo non sarà la recensione definitiva, ma spero almeno che questo sia un buon punto di partenza per chi magari in futuro vorrà approcciarsi al mondo folle e malato di Kazutaka Kodaka, un autore eccentrico e che è stato in grado di portare il concetto di visual novel oltre la visual novel stessa. Magari quest’ultima parte sarà una classica supercazzola da giornalista videoludico, ma ovviamente dovreste prima di tutto giocare questa serie, prima di poter obiettare. No?