“Le donne devono trovare la forza per lasciare i mariti devastati dalla dipendenza da videogiochi”: questo il titolo di un articolo de La Stampa di ormai 10 giorni fa. Il nostro titolo vuole quindi essere una parodia; il nostro articolo vuole invece sbugiardare tutte le fandonie che quotidiniamente vengono espresse, senza alcun tipo di conoscenze, sul mondo videoludico.

L’autrice dell’articolo originale, tale Maria C., inserisce quest’ultimo nella sua rubrica “La risposta del cuore” (si, si chiama davvero così. Anche se “risposta col cul* avrebbe reso decisamente di più). La struttura è semplice: chi la legge le scrive e lei risponde. In questo caso, a scriverle è stata una moglie stanca del marito che passa le ore davanti “Fortnite”.
Alcuni stralci della lettera della moglie disperata:
“Il mio amore è caduto nella trappola della dipendenza. No non si tratta di droga, anche se non cambia tanto. La sua si chiama «Fortnite» ed è un gioco della Playstation che lo ha catturato, trasformato, annientato. Trascura non solo me ma anche il suo lavoro. […]
Tutto è sempre più difficile, anche nascondere questa situazione agli amici per difendere mio marito dai pettegolezzi e dalle cattiverie. Sono intrappolata, prigioniera di «Fortnite» anche io e non so che fare.”


La risposta della giornalista:
“Cara Chiara, non è la prima volta che mi trovo ad affrontare il tema della dipendenza da videogiochi e sono diverse le lettere che ricevo non solo da fidanzate e mogli ma anche da mamme che hanno lo stesso problema.
Quando qualche tempo fa dedicai qualche riga di severità agli adulti che passavano troppo tempo a giocare ho ricevuto una valanga di proteste e di insulti. […]
Quindi ti rispondo con sincerità consapevole delle critiche che mi arriveranno da chi non vuole capire che non si demonizzano i videogiochi ma se ne evidenzia il loro uso improprio e dannoso. Da quello che mi racconti credo che tu possa fare poco. Non sei sua madre e lui è un adulto, quindi oltre a tentare di convincerlo a farsi aiutare non hai altre armi. Se non quella di andartene spiegandogli bene perché lo stai facendo. Lo ami ma non puoi assistere al suo autodistruggersi. Lui deve trovare la forza per uscire da questo gorgo virtuale in cui si è infilato e deve farlo da solo. […]
Non mollare, ma adesso «mollalo».”


Che dire, non so proprio da dove iniziare. Partiamo dalle premesse: la giornalista è laureata in economia alla LUISS, quindi presumibilmente senza alcun tipo di competenza (professionale) negli ambiti della psicologia, della sociologia o delle dipendenze. Tralasciando la banalità, lo “pseudo-femminismo” e la melodrammaticità dei consigli dati (“mollalo”) stile Una mamma per amica, passiamo a ciò che ci interessa.
Maria afferma di “non voler demonizzare i videogiochi ma di evidenziarne il loro uso improprio”. Bene. Le do qualche consiglio per far sì che la prossima volta possa essere meno fraintendibile:

a) Un titolo meno sensazionalistico, a scapito proprio dei videogiochi, potrebbe aumentare la credibilità
b) Sottolineare di voler condannare solo “l’uso improprio” di un qualcosa, senza poi sprecare mezzo rigo sulle possibili cause scatenanti, bhè, fa sembrare proprio che l’unica cosa da voler condannare sia il mezzo con cui qualcuno si estranea (in questo caso il videogioco) e non le cause scatenanti di questo atteggiamento. Come chi se la prende con la droga che dilaga senza minimamente tenere conto delle problematiche sociali che si celano dietro. Miopia o malafede?
c) Svolto questo ragionamento, ovvero capire che dietro una dipendenza c’è anzitutto una causa, si provi a prendere atto che, in alcuni casi, il videogioco diventa una valvova di sfogo alternativa a molte altre, come la già citata droga. Se non ci fosse stato Fortnite probabilmente ci sarebbe stata l’amante. Quindi più che prendersela con Fortnite, dovreste ringraziarlo.
d) Continuare a non trattare la dipendenza da videogioco (ammettendo esista) come qualsiasi altra dipendenza è quindi da sciocchi. Come sciocca è la frase di chiusura dell’articolo: “mollalo”. Mollalo? Perché un assistente sociale la prima cosa che direbbe ad un genitore col figlio tossicomane sarebbe “lascialo solo”? Probabilmente sì, in caso di interesse nel farlo sprofondare ulteriormente.

In conclusione, nessuno vuole difendere i videogiochi a priori. Semplicemente, anche in nome di una onestà intellettuale e giornalistica, sarebbe preferibile trattare tematiche così delicate con un minimo di cognizione e di conoscenza, meglio ancora se scientifiche (lungi infatti da noi dichiare il videogioco come la salvezza dell’umanità senza alcun tipo di prova).
A molti di noi videogiocare ha fatto buttare molto tempo, lo sappiamo benissimo; come sappiamo anche che quel tempo buttato, se avevamo intenzione di buttarlo e/o mancavano di volontà per impiegarlo diversamente, lo avremmo buttato comunque.