Ammettiamolo, quando giochiamo spesso finiamo per comportarci da bestie. È un fatto risaputo, nelle chat testuali e vocali di ogni gioco on line ci si insulta; è come urlare alla gente nel traffico, solo che qui possono sentirci. In tre anni di Hearthstone, unico gioco in cui abitualmente incontro estranei, mi hanno aggiunto senza intenzioni bellicose una sola volta. Un evento talmente raro che mi è rimasto impresso nella memoria.

Ma è la concitazione del momento a renderci così, giusto? Abbiamo appena perso, l’RNG ci ha privati di una vittoria certa, un compagno di squadra incapace ha buttato una partita semplice alle ortiche. A bocce ferme siamo persone normali e tranquille, siamo bravi ragazzi. Giusto?

Ovvio che no. Perché avete letto il titolo, perché se no non starei scrivendo questo articolo, perché abbiamo visto tutti accumularsi le notizie di queste ultime settimane. Rabbia, molestie, suicidi, a mente fredda, a bocce ferme, away from keyboard. Sia messo a verbale ora, prima che finisca questa introduzione, che non sto cercando cause ne soluzioni. Scrivo solo per rendermi conto di cosa stiamo diventando come community e di cosa devo rendere conto, quando dico che per hobby gioco ai videogiochi.

Il vecchio mostro

Voglio partire dall’argomento più leggero, avremo tempo per scendere nelle tenebre. L’espressione più palese dei problemi che la community dei videogiocatori ha sono le reazioni violente a episodi apparentemente insignificanti. Se volessi scavare nel passato potrei portare casi di studio molto famosi, ma non voglio allontanarmi troppo dal presente.

Il 19 giugno 2020, un mese fa, usciva The Last of Us Part II.  Sai che una community ha un problema quando si prende la briga di operare un’estesa campagna di review bombing per un personaggio con le braccia grosse. Perché sì, dietro a tutte le scuse di leak e odio per Naghty Dog il motore principale di tutta la rabbia è stata la sessualità e il genere dei personaggi.

“Le lesbiche vogliono rubarci i videogiochi” è un argomento vecchio quanto il gamergate, che in anni di internet significa che risale più o meno al periodo in cui si estinsero i dinosauri. Ma anche se vecchio, è tornato a galla con una violenza sorprendente e inaspettata. Ma non è sugli insulti, sulle recensioni senza senso, né sulle minacce di morte al cast del gioco (lasciate stare Ashley Johnson maledetti) che voglio concentrarmi. Non sulla rumorosa minoranza, ma sulla maggioranza e sul suo silenzio. Davanti alla folla urlante armata di torce e forconi, cosa hanno fatto tutti gli altri? Nulla. Li abbiamo ignorati, bollati come una parte morente della community, che prima o poi scomparirà. Ma questo lo ripetiamo da anni, eppure sono ancora lì.

La verità è che quei giocatori arrabbiati per le braccia grosse non stanno diminuendo. Non stanno nemmeno aumentando certo, ma sono una parte della community del gaming, da essa inseparabile. Per loro natura i videogiochi attirano persone che hanno difficoltà a rapportarsi con la società. Attacchi del genere a videogiochi che sceglieranno di rappresentare istanze più progressiste esisteranno di conseguenza sempre. Nascondere la polvere sotto il tappeto, fingere che non esistano, non serve a nulla. È la nostra community, nel bene e nel male, ed è nostro dovere capire come gestire queste reazioni, se non vogliamo essere definiti da esse.

Il nuovo mostro

Ma non è solo la community di semplici giocatori a dover fare i conti con il presente. Proprio mentre usciva The Last of Us Part II e si scatenava il putiferio associato, diverse donne accusavanolo streamer SayNoToRage di molestie e comportamenti inappropriati. Come è già successo in altri ambienti, le prime accuse hanno causato un effetto domino, dando il coraggio ad altre donne dell’ambiente del gaming di farsi avanti e raccontare la loro esperienza.

Così diversi gamer professionisti, streamer e youtuber sono stati investiti da accuse simili, con un eco talmente enorme da arrivare a toccare anche la scena competitiva italiana di Super Smash Bros.

Ma le accuse non si sono fermate ai giocatori. Durante le settimane successive hanno iniziato ad emergere testimonianze di comportamenti simili anche in ambito lavorativo. Software house come Ubisoft, Wizard of the Coast e Insomniac hanno dovuto accettare lettere di dimissioni di importanti collaboratori o persino dirigenti, a seguito di indagini interne o semplici accuse. È facile derubricare gli eventi come un’onda lunga del Metoo. I videogiochi sono solo un’altra industria dell’intrattenimento e come nel cinema, c’è un problema molto serio di molestie. E questo può essere vero, se si considera solo la seconda parte di questa storia.

Perché la classica situazione da Metoo è quella di un ambiente lavorativo ostile alle donne (ma anche ad altri uomini, vedi il caso di Terry Crews), nel quale gli uomini al potere sfruttano la loro posizione per ottenere favori sessuali in cambio di avanzamenti di carriera. La nostra community ha dimostrato però l’esistenza di una dinamica non unica né nuova magari, ma del tutto peculiare. Tutti gli scandali riguardanti gli streamer e gli youtuber infatti non ricalcano strettamente le dinamiche appena descritte. Si tratta invece di una celebrità, anche piccola, che sfrutta la sua relazione parasociale con le fan per attuare comportamenti inappropriati e rimanere impunito.

Ed è proprio la natura della relazione tra fan e celebrità on line che dovrebbe preoccupare. Questo tipo di comportamenti è sempre esistito, le groupie sono sempre esistite, ma il tipo di rapporto che i follower hanno con i propri beniamini è diverso da quello che un fan può avere con il suo cantante preferito. Uno streamer lo vedi tutti i giorni, è attivo nella community, è investito di un potere e di una responsabilità verso i suoi follower enorme, potere che viene amplificato dall’età spesso giovanissima di chi lo segue.

Ma è davvero giusto addossare la colpa addosso a dei ragazzini? Non fraintendetemi, non sto accusando le vittime. Sto accusando tutti gli altri. Quelli che mentre queste cose accadono si girano dall’altra parte, e poi quando il marcio viene a galla si siedono comodi, popcorn alla mano, ad assistere al disastro di una carriera che si schianta. Non ce l’abbiamo anche noi un pochino di responsabilità? Non dovremmo tentare di rendere le nostre community un posto meno orrendo per le potenziali vittime di questi comportamenti? Non dovremmo, e qui mi riferisco specialmente ai più adulti, spiegare a questi ragazzini perché usare i propri numeri on line portarsi a letto le fan non è una cosa bella? Tutti a chiedere a Twitch o a chi per lui di intervenire, ma è la nostra community, sta a noi e a nessun altro renderla un luogo migliore.

Il mostro eterno

Il 2 luglio scorso moriva suicida Byron Daniel Bernstein. Una settimana dopo è toccato a Lannie Ohlana. Entrambi streamer, entrambi gamer. Non ho parlato di Reckful per scelta editoriale. Questo è un sito di intrattenimento, non facciamo necrologi. Ma dietro alla volontà di comunicare la morte dello streamer di World of Warcraft c’era di più di un semplice articolo clickbate, almeno nel mio caso.

Non seguivo direttamente Reckful, ma lo avevo conosciuto per la sua partecipazione ad un progetto molto bello, HealthyGamer. Un canale Twitch e YouTube gestiti da uno psichiatra statunitense laureato ad Harvard ed esperto in dipendenza da videogiochi, il dr. Alok Kanojia, dr. K in breve, che si propone di dare visibilità al problema della salute mentale di tutta la community che gira attorno ai videogiochi. Per ottenere questa luce intervista personalità famose specialmente del mondo dello streaming, oltre a persone qualunque, parlando dei loro problemi. Con Reckful ha fatto sei interviste, quasi dieci ore in totale.

In quelle interviste, come in moltissime delle altre tenute dal dr K, è facile ritrovare le stesse difficoltà che so per certo accomunare molti videogiocatori. Spesso persone sole, spaventate da una società che non capiscono e che non li capisce, privi degli strumenti per interagire con essa in maniera accettabile. Sarebbe bello ora riuscire a tracciare un percorso, che porti le considerazioni tratte da queste chiacchierate a giustificare tutti i mali della community, ma come ho specificato all’inizio, non sono qui a cercare cause o soluzioni.

Un’altra volta invece vorrei invitare tutti noi a guardarci in faccia a vicenda. Ad esercitare un po’ di empatia, a provare a capire che cosa stanno passando le persone con cui tutti i giorni condividiamo una partita. Ma a differenza delle molestie o della rabbia, questa volta non credo che possiamo vincere da soli. Reckful aveva tutta l’attenzione necessaria, da parte di più di una community. Era ascoltato, era aperto riguardo alla sua condizione. Ma ha perso comunque. La verità è che per un mostro del genere il supporto di una community non basta. Quello che possiamo fare noi è cercare di aumentare la consapevolezza su questi problemi, anche condividendo progetti come HealthyGamer. Specialmente in Italia, dove ancora sul tema della salute mentale aleggia uno stigma non indifferente.

Alla fine di questo fiume di frasi, quello che voglio esprimere è semplice. Mi piacerebbe che, come community, riuscissimo a risolvere i problemi che ci affliggono non affrontandoli uno a uno, ma semplicemente interagendo di più. Se davvero vogliamo essere community, smettiamo di fingere che i problemi degli altri non ci riguardino.