Il Jazz non è una musica facile. Da profani spesso lo si definisce come quel genere con più gente che lo suona che gente che lo ascolta. Quindi costruire una serie TV di otto episodi su una band jazz non sembra la migliore delle idee, specialmente se si punta a un ampio successo di pubblico.
Eppure Netflix ci prova, e affida la sfida a Jack Thorne. Lo so, ai fan di Harry Potter tra voi è salito un brivido lungo la schiena. È tra gli autori di The Cursed Child, vero, ma non è da solo in questa avventura. Ad affiancarlo per parte della regia e della produzione c’è l’uomo che ha portato il jazz agli oscar solo qualche anno fa. Damien Chazelle, regista di Whiplash e LaLaLand.
The Eddy, Parigi e il jazz
The Eddy è un locale jazz di Parigi, nel tredicesimo arrondissement, aperto da due amici ex musicisti. Farid, trombettista parigino e Elliot, famosissimo pianista statunitense ritiratosi dalle scene dopo la morte del figlio. The Eddy è anche la band che ci suona in quel locale. Un branco di musicisti riuniti da Elliot a Parigi; molti di loro vengono da situazioni non idilliache, masticano a fatica sia il francese che l’inglese, ma sanno che questa band è la loro possibilità di fare qualcosa con il talento che hanno a disposizione. The Eddy è anche una canzone. Un pezzo che Elliot fatica a finire di scrivere e che accompagna la narrazione, dall’inizio alla fine.
La trama attraversa Parigi. Non La Ville-Lumière turistica, del centro scintillante, degli Champs Elysées e e della tour Eiffel, ma una Parigi di periferia, che un po’ come il jazz, è capace allo stesso tempo di accoglierti e di escluderti. I protagonisti vivono questa città da stranieri. Julie, la figlia di Elliot spedita in Francia dalla madre newyorkese, più di chiunque altro fatica ad adattarsi alla realtà della capitale francese. Sim, barista del The Eddy e aspirante musicista, è parigino di nascita ma arabo, rinchiuso assieme a famiglia e amici in una periferia senza facili vie d’uscita. La band stessa è molto poco parigina: i musicisti vengono da Cuba e dalla Polonia, da Los Angeles e dalla Croazia, hanno vite incerte, esistenze di periferia il cui unico centro è The Eddy.
Ma se pensate che la serie sia soltanto la storia di una band vi sbagliate. Ogni episodio si tuffa nella vita di uno dei personaggi, scrutando nella difficile quotidianità di chi vive di musica, di chi di musica viveva, e di chi vorrebbe viverci. Perché questa serie in realtà parla di quello, di musica.
Non solo Chazelle
Il progetto di The Eddy è all’apparenza talmente ambizioso da sembrare quasi folle. L’intera band tolta la cantante interpretata da Joanna Kulig, è composta da veri musicisti, con quasi nessuna esperienza attoriale. Tra di loro, quelli cui viene dedicato un intero episodio non sono nemmeno madrelingua in nessuna delle due lingue principali dello show.
Oltre a questa peculiare scelta di casting, la produzione ha voluto curare in maniera maniacale la parte musicale. Il set del locale funge anche da studio di registrazione per ogni performance della band. Le canzoni sono state composte per l’occasione da Glen Ballard, collaboratore di artisti internazionali famosissimi, da Michael Jackson ad Elisa, nonché vincitore di cinque Grammy.
In un’intervista a Film Indipendent Ballard ha dichiarato che mentre componeva la musica, prima che lo show cominciasse ad essere girato, non aveva l’intento di costruire una storia. L’unica costante che attraversa questi pezzi è che sono “Ambientati a Parigi”. La passione e l’attenzione per questo aspetto della serie sono testimoniate da un video pubblicato da Netflix su YouTube intitolato “The Music of The Eddy”.
Il nome di Chazelle sembra essere una scelta di marketing. Ha funzionato con me almeno, quando ho visto il nome del regista di Whiplash affiancato ad una serie sul jazz mi sono subito convinto a guardarla. Ma in realtà nel 2014, quando lo show muoveva i suoi primi passi, anche questa scelta era una scommessa. Il regista era per lo più sconosciuto, i suoi grandi successi dovevano ancora arrivare e il produttore della serie, Alan Poul, aveva visto soltanto la proof of concept di Whiplash.
Tutto suona, o quasi
The Eddy è un’esperienza, qualcosa di mai visto nel mondo delle serie TV. La qualità della realizzazione tecnica è indiscussa. Partendo ovviamente dalla musica, alla quale tutti, attori e musicisti, si sono dedicati anima e corpo. Penso che anche un profano sia in grado di notare la differenza tra le canzoni suonate durante le puntate di The Eddy e la pantomima che normalmente sostituisce la musica suonata dal vivo nei media visivi. Queste canzoni ti rimangono in testa, ti coinvolgono. Puoi immaginare di essere nel locale durante le prove, nel garage di Sim nel mezzo di un banlieue, di essere uno dei passanti che ascolta il contrabbasso Jude suonare per le strade del centro.
La regia è un altro pezzo forte di questa serie. I primi due episodi girati da Chazelle sono fenomenali. I piani sequenza che sono ormai marchio di fabbrica del regista statunitense accompagnano l’esecuzione dei pezzi e ti trascinano nel locale. Anche gli altri tre registi, Houda Benyamina, Laila Marrakchi e Alan Poul, che è anche produttore della serie, si distinguono per scelte coraggiose. Non hanno paura di sperimentare, inserendo spezzoni girati in modo da sembrare ripresi con un telefono, in alcuni casi anche a discapito della qualità visiva e audio; l’immersione però ne guadagna immensamente.
La vera immersione però la regalano i personaggi, e non era scontato che accadesse. È facile dipingere i musicisti come geni maledetti, incomprensibili per noi semplici umani. E con un genere come il Jazz, cadere in questa trappola sembra quasi ovvio. Ma fin dal primo momento tutti i personaggi di The Eddy sono reali. Semplici nel modo in cui agiscono e nel modo in cui sbagliano. Il talento non li rende alieni, anzi li rende forse ancora più umani. Sono le loro storie personali che portano avanti la serie, i loro piccoli o grandi drammi quotidiani e il modo in cui la musica li aiuta a superarli.
Non si può parlare dei personaggi senza spendere due parole sugli interpreti. Più che esaltare le qualità attoriali di Holland o di Rahim, o quelle musicali dei membri della band, preferirei spostare il focus sull’altra faccia della medaglia di queste interpretazioni. Quasi tutti gli attori hanno dovuto imparare a suonare uno strumento e tutti i musicisti si sono dovuti cimentare con la recitazione. I risultati sono stati sorprendenti.
Forse gli unici dubbi che mi sento di esprimere su The Eddy riguardano la storia. Non che la trama in sé contenga degli errori: è scritta regolarmente con un inizio, uno svolgimento e una fine, ma non suona, in tutti i sensi. Sembra estranea al tono e al senso della serie, sembra messa lì solo per dare un’idea del passaggio del tempo. Ma soprattutto, la trama riguarda la musica solo in modo marginale. Non so se sarebbe potuto esistere un The Eddy senza questa trama principale, trascinato solo dalle storie personali dei musicisti, ma se l’obbiettivo era esplorare la psicologia di Elliot, si poteva forse trovare un espediente che si relazionasse meglio con la musica.
Nonostante questa nota amara, la serie rimane unica e assolutamente da vedere. È raro che Netflix produca un progetto del genere, senza sicuri riscontri di pubblico e soprattutto senza un seguito. The Eddy è spinto dalla passione di ogni singolo membro del cast e della produzione e trasmette a chiunque lo guardi un amore incondizionato per il jazz e per la musica in generale. Infatti, nonostante abbia già guardato tutto lo show, aspetto anche io con ansia l’8 maggio, la data d’uscita, perché voglio vedere questa pagina di Spotify riempirsi dei brani di cui mi sono innamorato.