The Dark Pictures Anthology: Little Hope è il secondo gioco dell’antologia di titoli horror della serie Dark Pictures. Le premesse sembravano, già dalle poche informazioni arrivate, decisamente superiori rispetto allo (s)fortunato capitolo precedente. Tuttavia, visto l’insuccesso dell’episodio precedente, una domanda sorge spontanea: questo gioco riesce a superare Man of Medan in termini di qualità? Scopriamolo insieme con questa recensione.

La peculiarità della serie Dark Pictures Anthology, sviluppata dai ragazzi di Supermassive Games, noti specialmente per Until Dawn oltre che per il già citato Man of Medan, consiste nel portare in scena una serie di avventure grafiche (tutte perlopiù a tema horror) che pone al centro dello sviluppo narrativo l’interazione tra diversi personaggi e le scelte morali fatte dal giocatore, che potrebbero rivelarsi giuste o, in alcuni casi, sbagliate. La particolarità di questa serie, però, non riguarda solo tutto ciò che concerne il gameplay: infatti, gli sviluppatori, per creare queste storie pare si siano ispirati ad alcuni fatti e leggende che ci circondano nella vita reale, ovviamente romanzandole, creando quindi una serie di capitoli tutti scollegati e con timeline differenti.

Tuttavia, nonostante un’accoglienza piuttosto tiepida del precedente capitolo (causata principalmente da numerosi errori tecnici) Little Hope rappresenta, appunto, una piccola speranza di rinascita per quanto riguarda questa serie peculiare: Bandai Namco, infatti, ha creduto particolarmente nel progetto ed i risultati positivi, specialmente per quanto riguarda il comparto tecnico, sono piuttosto evidenti.

Come accennato precedentemente, questa antologia si ispira principalmente a eventi realmente accaduti e ad alcune leggende metropolitane. Little Hope è liberamente ispirato a ciò che, nello specifico, un particolare pubblico (quello americano) conosce bene: il folklore inerente al terribile evento della caccia alle streghe che riguarda il periodo che va dal 1450 al 1750 e che causò tra le 35.000 e le 100.000 vittime in tutto il mondo. Molti di questi ingiusti e noti processi si svolsero nella città di Salem, tuttavia in America esisteva un’altra città dove questi episodi non erano nuovi: Andover, nello stato del Massachussets, che, analogamente all’altra città americana, ha visto diverse condanne per stregoneria. Ed è proprio da queste città che l’opera prende ispirazione.

Fortunatamente il titolo riesce, a dir la verità senza troppo impegno, a superare la qualità del suo predecessore non solo a livello visivo, ma anche per come gli sviluppatori sono riusciti ad evolvere la trama del gioco e, senza farvi troppi spoiler, vi posso tranquillamente confermare che la tensione è molto più palpabile e percettibile, con diversi colpi di scena che rendono l’esperienza più coinvolgente. Il gruppo di protagonisti è formato da cinque ragazzi, tra cui Andrew (che è interpretato nella versione originale dall’attore inglese Will Poulter, noto principalmente per aver partecipato all’episodio interattivo di Netflix di Black Mirror). Prima di agire e svolgere qualsiasi azione all’interno del gioco è importante, se non addirittura fondamentale, svolgere determinate scelte morali. Ricordatevi che il titolo si basa principalmente su cosa selezionate e ciò incide particolarmente nel proseguo della storia. Tuttavia nessuna di queste scelte garantisce (almeno nell’immediato) opzioni positive o negative, bensì conseguenze che derivano appunto da come decidiamo di caratterizzare il personaggio di turno.

Il titolo, fortunatamente, è disponibile in italiano sia per quanto riguarda il menù che per la localizzazione che vede coinvolto il doppiatore Renato Novara, in un’interpretazione convincente. In generale, l’intero cast è doppiato egregiamente e riesce a far percepire la tensione costante.

Il videogioco di Supermassive Games, come il precedente, presenta diverse modalità per affrontare la storia: se si è “temerari” si può affrontare la storia in solitaria, altrimenti c’è l’apposita sezione dedicata a chi vuole giocare con gli amici. Parlando della versione in singleplayer, la storia appare più standard, consentendo al giocatore di personalizzare la propria esperienza concentrandosi dunque sulla caratterizzazione dei diversi protagonisti. Inoltre sono presenti anche degli indizi sparsi in giro per la mappa che tornano utili per vedere in anticipo alcuni eventi e che, conseguentemente, potrebbero essere utili per moderare le proprie scelte/opzioni future.

Considerando che per tutta la durata del gioco dobbiamo tenere conto delle diverse personalità dei protagonisti coinvolti, consiglio di osservare con attenzione, senza fare spoiler, i diversi tratti delle loro personalità per progredire serenamente nella storia. Durante tutta la fase di gaming siamo comunque accompagnati dalla voce narrante del Curatore, un uomo che (come già visto in Man of Medan) ci spiega non solo come approcciarci al gioco durante le fasi iniziali ma commenta costantemente gli eventi in cui, tragicamente, siamo coinvolti.

Per chi non ama particolarmente gli horror ma vuole affidarsi ad un’esperienza condivisa, Little Hope consente anche di giocare insieme ad altre persone con la modalità “Non giocare solo“. In modo analogo a Man of Medan, l’opera ci consente di provare il titolo in compagnia degli amici condividendo l’esperienza e donandoci la possibilità, tramite un joypad, di scegliere che personaggio essere e scambiarlo proprio durante gli intermezzi che vedono coinvolti i personaggi selezionati. In realtà questa versione non porta troppi cambiamenti rispetto a quanto visto con il precedente episodio. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda l’altra modalità presente sempre in multiplayer: “storia condivisa online“. Nonostante fosse presente anche in Man of Medan, in questa versione non solo l’esperienza di gioco sarà condivisa con un amico, ma sono presenti delle scene inedite che non sono disponibili nella versione single player, al contrario del predecessore. Ovviamente, questa scelta comporta non solo nuove interazioni (dialoghi e scelte) ma anche inediti ed intriganti risvolti. Dunque per completare al meglio l’esperienza di gioco mi sento di consigliare questa modalità.

Fortunatamente, se Man of Medan presentava tanti (forse addirittura TROPPI) errori tecnici, gli sviluppatori di Supermassive Games hanno ascoltato i feedback dei diversi giocatori riuscendo quindi, finalmente, a portare un’esperienza di gioco degna di un titolo horror. Se nel precedente gli spaventi non erano dovuti particolarmente alla storia in sé ne alle ambientazioni ma ai troppi bug e problemi tecnici (talvolta non nascondo esilaranti), in questo caso sul piano tecnico ci ritroviamo davanti ad un ottimo lavoro anche per quanto concerne i dettagli delle varie ambientazioni. Anche le animazioni appaiono più fluide e nel complesso tutto sembra funzionare, salvo qualche piccolo calo di frame rate che potrebbe manifestarsi durante i quick-time event.
Anche il gameplay ne esce migliorato: ad esempio le scelte dei dialoghi sono state ampliate e durante i QTE appaiono degli appositi bollini a schermo che ci indicano che tipo di evento accade.

Little Hope, omonima città fantasma dove si svolgono le vicende, risulta decisamente più interessante e inquietante rispetto alla nave fantasma del vecchio capitolo, con un’atmosfera piena di pericoli ed insidie in ambienti dalle tinte oscure. Non mancano nemmeno i jump scare ma anche questo capitolo non presenta elementi eccessivamente horror. Mi sento però di dire che questo fatto dipende principalmente dalla sensibilità di ogni singolo giocatore, dunque sta a voi decidere se il titolo effettivamente è terrorizzante o meno.

In conclusione, Little Hope migliora, di gran lunga, l’esperienza sia di gioco che di gameplay del precedente capitolo Man of Medan. In attesa del prossimo gioco (previsto per il 2021, probabilmente ad Halloween), ci sentiamo di consigliarvi questa esperienza di gioco che in circa 6 ore, è possibile concludere.