I videogiochi sono un media volto all’intrattenimento. Una percentuale largamente maggioritaria dei titoli si astiene dal commentare la società, e anche quelli considerati più profondi preferiscono esaminare aspetti più generali della condizione umana, piuttosto che concentrarsi su specifici eventi di rilevanza politica.

Per questo motivo, le rare volte che un gioco si preannuncia politico fin dal titolo attrae diverse attenzioni sia da fuori che da dentro l’ambiente videoludico. È questo il caso di Six Days in Fallujah, sparatutto tattico in prima persona prodotto da Victura, che nelle scorse settimane è finito al centro di una curiosa polemica, ancora prima di essere pubblicato.

Le vicende nel gioco

Il motivo per cui Six Days in Fallujah ha ricevuto così tante attenzioni è la storia che vuole raccontare. Il nome “Fallujah” risulterà familiare a molti, perché a inizio anni 2000 lo abbiamo sentito continuamente alla TV. È una città irachena, teatro di molti scontri e due battaglie durante la Guerra in Iraq, condotta da una coalizione guidata dagli USA contro il regime di Saddam Hussein.

Il gioco narra i sei giorni della seconda battaglia di Fallujah, svoltasi nel 2004, che è rimasta impressa nella memoria del popolo americano come una delle più sanguinose mai combattute dai Marines. L’operazione, chiamata in gergo  Phantom Fury, fu messa in atto dopo che tre mercenari americani rimasero uccisi in un’imboscata dei ribelli iracheni, e le immagini  dei loro corpi mutilati fecero il giro del mondo.

Uno dei motivi per cui la battaglia è rimasta nell’immaginario americano è il fatto che sia avvenuta a guerra tecnicamente conclusa. Gli avversari degli americani non erano infatti l’esercito regolare iracheno, ma i ribelli che si opponevano all’occupazione. Sul campo rimasero 107 soldati americani, 613 invece i feriti.

La vicenda del gioco

La produzione di Six Days in Fallujah partì malissimo quasi 12 anni fa, nel 2009 quando Konami cancellò il progetto subito dopo averlo annunciato. Le ferite della guerra erano ancora troppo fresche e il gioco fu sommerso dalle critiche del pubblico americano.

Ma gli ideatori di questo titolo evidentemente non hanno mai rinunciato al sogno di vedere il loro progetto prendere vita. Così il CEO di Atomic Games, responsabile dello sviluppo del gioco originale, ha fondato Victura, una software house con l’esplicito obbiettivo di portare Six Days in Fallujah al pubblico di tutto il mondo. 

In data 11 febbraio è arrivato l’annuncio del gioco, accolto questa volta con meno polemiche rispetto a un decennio fa. Tutto sembrava andare a gonfie vele, finché lo stesso fondatore di Victura Peter Tamte non ha rilasciato un’intervista a Polygon in cui sottolineava come il gioco non avrebbe dato spazio a nessun commento politico sulla vicenda.

“Allo stesso modo in cui un Marine non può criticare le scelte di chi detta la linea politica, noi non abbiamo intenzione di commentare sulle scelte politiche fatte in quel contesto, o se la guerra sia stata o no una buona idea”

Il risultato di queste dichiarazioni è stato una pioggia di polemiche. Se dodici anni fa la scelta di rendere il gioco politico gli era stata fatale, oggi la scelta opposta stava per avere le medesime conseguenze.

L’azienda è stata costretta a smentire il suo stesso amministratore delegato con un post su Twitter, confermando la natura intrinsecamente politica del titolo e rassicurando i giocatori e la community sul contenuto del gioco stesso.

Quanto sono cambiati i videogiochi?

Le ragioni delle polemiche più recenti e del fatto che siano di segno opposto a quelle del 2009, sono diverse. Sicuramente più di un decennio fa, fare un videogioco su una tragica battaglia in cui decine di soldati erano rimasti uccisi era sembrato poco delicato. Oggi invece a far arrabbiare è l’idea che si possa utilizzare Fallujah come semplice ambientazione, senza riconoscere il valore profondo di quella battaglia.

Però non sono cambiati solo i tempi, sono cambiati anche i videogiochi. Sta diventando sempre più normale che anche questa forma d’arte si confronti con temi delicati, e anche il pubblico mainstream accetta più facilmente che un’opera videoludica racconti fasi tragiche della nostra storia recente. 

Sembra che più i videogiochi si fanno arte, più si stiano assumendo la responsabilità di fare qualcosa di più che intrattenere. Fanno riflettere, raccontano, commentano sulla società che li circonda in modi sempre meno nascosti. Può essere un segno di maturità del media, ma può anche essere l’inizio di una nuova fase in chi di questo media fruisce. Dove si posizionerà il pubblico? Accetterà questa maturazione, o preferirà un’arte fine a sé stessa?