Verso la fine di ottobre è uscita sulla Stampa una innocua intervista ad una designer di videogiochi italiana. Nel giro di una settimana però, un misto di ignoranza e titoli clickbait l’hanno trasformata in quanto di più simile il nostro paese abbia mai visto al Gamergate.

Gamergate in breve

Esiste uno strano ritardo nel mondo italiano di internet. Tutto ciò che diventa di moda in USA ci mette dai tre ai cinque anni prima di avere la stessa fama in Italia. È successo con YouTube, è successo con Twitch, ed è successo con innumerevoli altre tendenze.

Una moda che fino ad ora non aveva attecchito in Italia era quella che vedeva i videogiocatori rendersi protagonisti di campagne d’odio, spesso dirette contro donne. La prima delle quali in America è conosciuta con il nome di Gamergate.

I fatti sono all’incirca questi. Nel 2014 Zoë Quinn, sviluppatrice di videogiochi, pubblica un titolo sulla sua esperienza con la depressione. La giornalista Anita Sarkeesian loda il gioco in una recensione, sottolineando la necessità di giochi che affrontino anche tematiche di questo tipo.

La community dei videogiocatori non la prende bene. Non vuole che questo tipo di politica prenda piede all’interno dei propri prodotti di intrattenimento. Comincia quindi una vera e propria campagna di insulti e minacce verso le due donne e chiunque si schieri dalla loro parte.

La campagna di odio nei loro confronti fu talmente estrema da diventare modello per quelle successive.

Gamergate all’italiana

A ricoprire il ruolo di Zoë Quinn nel remake del Gamergate andato in scena ieri è Claudia Molinari, designer di giochi milanese. Il suo progetto, We Are Müesli, crea vari prodotti multimediali tra cui anche videogiochi. Viene intervistata da Francesca Sforza per La Stampa, e il pezzo esce il 21 ottobre sul sito del giornale.

L’intervista è sobria e pacata. Elenca con razionalità i disagi di essere donna in un mondo come quello dei videogiochi, una realtà in cui non solo i tuoi colleghi, ma anche il pubblico a cui ti rivolgi è prettamente maschile.

Temi forti ma nulla di incendiario. Molinari pesa le parole, scherza, e l’intervista procede senza particolari passaggi critici. Si può solo immaginare quindi lo stupore dell’intervistata, quando il pezzo viene pubblicato dalla Stampa con questo titolo.

“Il videogioco è maschio, bianco, etero. Per evitare messaggi manipolatori bisogna rendere i modelli più inclusivi”

Nulla di male accade però, finché il primo novembre La Stampa decide di pubblicizzare l’intervista sul proprio profilo Instagram. È qui che la colonia di subumani che ancora popola la community dei videogiochi si scatena.

Nei commenti compaiono minacce di morte, auguri di stupro, una valanga di insulti talmente gravi da costringere i social media manager del quotidiano torinese a cancellarne a decine.

Le colpe dei videogiocatori…

Prima di andare ad esaminare i cattivi di questa storia, un augurio alla vittima. Spero che questa ondata d’odio finisca presto, e auguro il meglio a Molinari e ai suoi progetti futuri. Ma veniamo ai subumani.

Lo sappiamo che questa gente popola la nostra community. Ogni volta che si parla di videogiochi includendo tematiche che non sono il pane quotidiano dei videogiocatori, ecco che piovono gli insulti e le minacce. 

È una malattia cronica, ma è anche la reazione rabbiosa di una specie in via di estinzione. Sono ormai almeno dieci anni che le software house stanno cercando di espandere il proprio pubblico oltre il genere maschile.

Questa parte della community è sempre meno numerosa e sempre meno rilevante. Lentamente il mondo dei videogiochi, sia tra il pubblico che tra gli addetti ai lavori, si sta liberando di loro.

… e della Stampa

Una parte della colpa deve però ricadere anche sul giornale. Il titolo dato all’intervista, pur essendo tra virgolette, non riporta una frase detta da Molinari. È un clickbait a tutti gli effetti, ma normalmente questo non costituirebbe un problema troppo grave.

Titoli del genere sono all’ordine del giorno, e sta ai lettori superarli e leggere l’articolo per quello che è. Ma questa volta non è stato possibile. L’intervista è nascosta dietro ad un paywall. Se la si vuole leggere bisogna abbonarsi alla Stampa. E sappiamo tutti quanto sia poi complesso disdire quegli abbonamenti.

Una testata nazionale prestigiosa quindi ha provato a racimolare due abbonamenti con un titolo clickbait. Così facendo ha però diretto l’ira di una community non su di sé, ma sulla donna che era protagonista di quell’articolo.

Sia chiaro la colpa rimane quasi interamente dei commentatori, ma forse anche il comportamento della Stampa non è stato del tutto appropriato.