A distanza di due anni, torna una delle serie di punta del pacchetto Prime Video. Tratto dal fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson, The Boys ci mostra cosa succederebbe se i super eroi fossero, beh, persone. È passato del tempo eventi della passata stagione, la sconfitta di Stormfront, la morte di Becca e la nuova posizione di Hughie presso il Bureau, in cui si trova a essere involontario “sidekick” di un super, i Boys hanno preso strade separate e anche all’interno della Torre dei Sette, stanno avvenendo alcuni passaggi di potere. I primi sei episodi della terza serie di The Boys sembrano tratteggiare eventi e disporre i personaggi  – vecchi e nuovi – all’interno di una dinamica che sembra preparatoria a un vero e proprio arco finale.

Certo, abituati al passato, sappiamo che questo potrebbe prontamente risolversi in un “niente di fatto” o comunque andarci vicino per poi tornare alla casella di partenza. Eppure, al netto di qualche sbavatura e dei soliti problemi evidenti soprattutto nella passata stagione, la serie di Eric Kripke sembra nettamente più in forma rispetto al passato.

“Più le cose cambiano”

Il primo episodio di questa terza stagione ci porta subito a casa, mostrandoci (fra le altre cose) una giornata tipo dei Boys, ridotti ora all’osso come squadra ma forti di una nuova posizione all’interno della “catena alimentare” governativa. La scena madre della puntata riassume egregiamente il taglio stilistico di The Boys e la modellazione dei suoi personaggi che appaiono sempre più umani in tutto e per tutto. Non è tanto una questione di sfaccettatura a livello emotivo o caratteriale, quanto proprio il costante promemoria per cui ognuno di noi, più che della stessa materia si cui sono fatti i sogni, sia fatto di carne, ossa, sangue e svariati altri fluidi corporei.

In questi primi sei episodi la serie cerca di aprire nuove domande, fornire risposte e cambiare costantemente le carte in tavola. Ci riesce abbastanza bene, soprattutto aprendo e chiudendo alcune parentesi più in fretta di quanto ci si potrebbe aspettare, o perlomeno non limitandosi solo a porre domande e aggiungere personaggi a schermo ma anche fornendo risposte, chiudendo piccoli archi narrativi che riescono quasi sempre a diluire coerentemente il racconto, senza dare l’impressione di un inutile filler, e di riallacciarsi alla trama orizzontale, contribuendo o arricchendo alla stessa.

Il ritmo è serrato, con una messa in scena in linea a quanto siamo abituati che però riesce a prendersi un po’ più di respiro quando deve, più quadrata e fermarsi sui personaggi e le vicende. Anche la fotografia rimane coerente a sé stessa e, sebbene a volte risulti un po’ troppo carica forse, è fedele al taglio dell’opera: cinico, esagerato, crudo, sboccato. I tocchi di classe di trasmissioni tv, cinema, pubblicità e merchandise riguardante “i Sette” resta sempre ben confezionato e restituisce perfettamente l’idea di un mondo in cui tutto ruota attorno a queste celebrità “divine”, riuscendo a far vedere sia il lato pop e vivace sia quello corporativo e senza scrupoli.

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Groovy!

The Boys è sempre The Boys. Il fiore all’occhiello della produzione è e resta nella sua rappresentazione della violenza. Rappresentazione che intelligentemente avviene in tutte le sue forme, anche quelle più sottili e subdole e non solo nel mero spargimento di sangue. La violenza verbale e quella psicologica ricoprono un ruolo importante e spesso veicolato da una sottile vena comica che rende il tutto ancor più forte e indigesto. La cattiveria di Homelander per esempio – ma anche quella di Butcher – è spesso esagerata e apparentemente gratuita ma restituisce perfettamente la mente distorta del personaggio che la perpetra e i suoi squilibri, la sua sofferenza.

Questa stagione riesce – per ora – dunque a destreggiarsi fra truculente scene di azione e momenti più introspettivi, solo in rari casi prendendosi troppo sul serio e riuscendo dunque a far sempre empatizzare con i personaggi o a farci soffermare sul perché non si riesca a farlo con alcuni di loro. Certo, nel complesso si tratta comunque di un prodotto non incredibilmente profondo ma che riesce a gestire tutti i suoi punti di forza in maniera brillante, anche quando reitera molti dei suoi schemi. L’unico personaggio che forse inizia a stancare è proprio Butcher, sempre carismatico e padrone della scena, ma troppo vittima del suo personaggio.

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“Sapete cos’è veramente noioso? L’immortalità”

Il problema di The Boys, che si è potuto soprattutto constatare nel corso della passata stagione, risiede soprattutto nella Plot Armor dei comprimari. Così spessa e intaccabile dal causare giocoforza problematiche narrative. Insomma, avere un cast molto numeroso in cui tutti risultano “indispensabili” e impossibilitati a lasciare la scena crea gravi scompensi, portando i protagonisti a girare intorno ai problemi senza mai essere in grado di risolverli e restituendo una sensazione di “niente di fatto” che a lungo andare è estremamente stancante.

Questa terza stagione però, nella sua prima metà, sembra aver trovato una quadra. Non potendosi liberare di nessun personaggio principale, cerca di renderlo il più interessante e “indispensabile” possibile ai fini della trama. Il risultato è che questi primi sei episodi sembrano anticipare un potenziale grosso cambiamento e anzi, nella seconda metà si potrebbe tranquillamente arrivare a un vero e proprio epilogo del serial, sebbene nutra molti dubbi a riguardo, visto il successo della serie e le indiscrezioni che già esistono su una possibile quarta stagione. Non solo, il rischio di creare un nuovo personaggio sulla falsariga di Stormfront – non tanto a livello di scrittura quanto di ruolo – potrebbe essere un nuovo capro espiatorio da usare per evitare di concentrarsi su Homelander e la distruzione della Vought.

Nel complesso, i primi sei episodi di questa stagione di The Boys sono all’altezza delle aspettative, resta vittima di alcuni dei suoi problemi, alcuni dei quali già citati ma anche di un’estrema prevedibilità degli eventi che pur non incidendo troppo sull’attenzione dello spettatore, infiacchisce un po’ l’opera denotando una certa pigrizia narrativa. Per dirla in altri termini: la pistola di Chechov spara un po’ troppo spesso.

Al netto di tutto ciò, il viaggio con i Boys rimane affascinante e magnetico, grazie a un buon cast in cui, ancora una volta, Anthony Starr ruba la scena.